Dalle inchieste milanesi alle ombre fiorentine, emerge un nodo strutturale: senza trasparenza e controllo democratico, le città diventano terreno di potere opaco
L’inchiesta “Grattacieli Puliti” ha fatto riemergere una verità strutturale che molti fingono di non vedere: l’urbanistica, in Italia, non è solo un insieme di regole tecniche, ma un campo di potere dove pubblico e privato si intrecciano in modo profondo, continuo, e a volte opaco.
Il cuore dell’indagine sta tutto in una frase pronunciata da uno degli indagati: “Il Salva Milano lo abbiamo scritto noi”. Una dichiarazione che non è solo uno spunto giudiziario, ma il sintomo evidente di un sistema dove i confini tra chi decide, chi esegue e chi ci guadagna si fanno sfocati, se non proprio intercambiabili.
Questa situazione non nasce dal nulla. L’urbanistica, per sua natura, è un terreno “contrattato”. Il suolo è quasi sempre privato, ma il suo uso incide sul bene comune: viabilità, servizi, paesaggio, qualità della vita. Non può quindi esserci un’urbanistica “neutra” o puramente regolativa.
Ogni trasformazione urbana è una trattativa. Ogni piano, una sintesi tra interessi in tensione. Se il pubblico non costruisce direttamente – e oggi, nella gran parte dei casi, non lo fa – allora negozia. Ma la domanda è: con quali regole? Con quali limiti? E soprattutto: con quali garanzie di trasparenza?
Il contesto normativo italiano complica ulteriormente la questione. L’urbanistica è materia concorrente tra Stato, Regioni e Comuni. Lo Stato fissa i principi fondamentali, le Regioni legiferano nel dettaglio, i Comuni adottano strumenti locali. Questo genera inevitabilmente sovrapposizioni, disallineamenti, spazi grigi. In quei vuoti si inseriscono prassi, interpretazioni divergenti, e talvolta abusi mascherati da innovazioni.
L’uso della SCIA in luogo del permesso di costruire, ad esempio, è una di quelle scorciatoie tecniche che in certi contesti diventa prassi consolidata, altrove reato edilizio. E se manca una cornice chiara, decidono le relazioni, non le regole.
Ed è qui che entra in gioco il tema del controllo. Chi vigila su tutto questo? La magistratura ha un ruolo importante, ma strutturalmente limitato.
I giudici non sono urbanisti né architetti, e devono appoggiarsi a periti, consulenti, tecnici. Ma anche i periti sono esseri umani, con le loro visioni, le loro appartenenze, i loro legami professionali.
E allora la domanda si fa inevitabile: chi controlla i controllori? Chi garantisce che chi esprime un parere tecnico non sia parte, direttamente o indirettamente, di quel sistema che è chiamato a valutare? La risposta, spesso, è nessuno. E quando il controllo si basa sulla fiducia e non sulla verifica, il rischio di arbitrio cresce.
A questo punto, è fondamentale ricordare un principio che dovrebbe accompagnare qualsiasi analisi pubblica e qualsiasi narrazione giornalistica: secondo l’accusa, alcuni soggetti avrebbero agito in modo da condizionare decisioni pubbliche per fini privati.
Ma l’ordinamento italiano riconosce a chiunque la presunzione d’innocenza fino a sentenza definitiva. Le ipotesi della procura sono – legittimamente – parte del processo penale, ma non devono mai trasformarsi in verità giudicate fuori dalle aule.
E comunque, esiste una differenza netta tra critica sistemica e accusa personale: la prima è doverosa, la seconda è pericolosa se anticipa i tempi del diritto. Anche quando le prove sembrano eclatanti o le prassi discutibili, nessuno è colpevole prima del terzo grado di giudizio.
Molti invocano una soluzione radicale: il ritorno alla proprietà pubblica del suolo. Se il terreno fosse della collettività, il potere decisionale resterebbe in mano pubblica e le rendite verrebbero reinvestite per il bene comune. È un’ipotesi forte, che ha precedenti storici importanti – da Vienna alle New Town inglesi – ma che oggi si scontra con l’assetto economico e ideologico dominante, dove il mercato è il principale attore urbano e il pubblico ha un ruolo di regolatore, spesso debole. Tuttavia, anche senza arrivare a quel modello, è evidente che la chiave vera è un’altra: la trasparenza.
La trasparenza non è solo pubblicare online un atto, ma renderlo comprensibile, accessibile, discutibile. Non basta che i documenti siano “visibili”: devono essere leggibili da chi non è del mestiere, accompagnati da sintesi chiare, aperti al confronto.
La vera forza di una democrazia urbana non sta nella perfezione delle sue norme, ma nella possibilità per i cittadini di sapere cosa accade, perché, e chi ci guadagna. Finché queste informazioni restano inaccessibili o troppo tecniche, il potere resta concentrato nelle mani di pochi. E quando il potere si concentra, la magistratura diventa l’unico correttivo, ma a quel punto è già troppo tardi.
E questo vale non solo per Milano. A Firenze, ad esempio, una denuncia pubblica firmata da numerosi studiosi e cittadini ha acceso i riflettori su un altro punto cieco: la Commissione per il paesaggio, organo comunale che dovrebbe valutare la compatibilità ambientale e architettonica degli interventi edilizi, lavora senza visibilità. Non si conoscono i nomi dei membri, non si trovano i verbali, non esiste una pagina dedicata sul sito del Comune. Sarebbe impossibile verificare eventuali conflitti d’interesse o incongruenze, perché tutto avviene in una camera oscura. Ed è proprio in questi spazi invisibili si decidono trasformazioni decisive per le nostre città?
In definitiva, l’urbanistica non può che essere politica, nel senso più alto del termine. È lo spazio dove si decide il futuro delle città e delle persone che le abitano. E proprio per questo non può essere lasciata all’opacità delle trattative riservate, né alle mani esperte ma solitarie dei tecnici.
Serve una cultura dell’evidenza pubblica: un’urbanistica che non abbia paura di mostrarsi, di spiegarsi, di rispondere. Perché la città è di tutti, e ogni trasformazione che la tocca dovrebbe essere comprensibile a chi la vive, non solo a chi la firma.
Francesco Pellegrini – Ivano Zeppi