Claudio Caprara e quel vento che fischiava… e fischia ancora

Martedì 13 maggio sarà al complesso San Niccolò e quindi al Bookstore con Marcello Flores e Maurizio Boldrini

Claudio, partiamo dal titolo: “Fischiava il vento” evoca immediatamente la Resistenza. Che significato ha per te questo richiamo?

“Fischia il vento fu il vero inno della Resistenza e per questo, per migliaia di partigiani, fu l’ultima canzone che ascoltarono o cantarono nella loro vita. Come ha scritto lo storico Marcello Flores questa canzone fu composta da Felice Cascione, giovane medico e comandante partigiano nella zona di Imperia. Dopo l’8 settembre 1943, salì con altri giovani sulle colline sopra Oneglia per unirsi alla lotta armata. In cerca di un inno per il gruppo, scelsero la melodia della canzone russa “Katjuša” del 1938. Con l’aiuto dello studente Silvano “Vassili” Alterisio, Cascione scrisse il testo, inizialmente intitolato “Soffia il vento, urla la bufera”, poi modificato in “Fischia il vento” grazie a piccoli ritocchi della madre, Maria, maestra elementare. La canzone venne presentata per la prima volta a Natale del ’43 e poi ufficialmente eseguita all’Epifania nella chiesa di Alto, in provincia di Cuneo. Pochi giorni dopo, il 27 gennaio 1944, Cascione fu ucciso dai fascisti durante un rastrellamento. La sua figura venne celebrata da Italo Calvino, che lo ricordò come uno dei partigiani più generosi e valorosi. Per anni, “Fischia il vento” fu la canzone simbolo della Resistenza, prima di essere superata in notorietà da “Bella ciao”. C’è da dire che “Bella ciao” diventò la canzone simbolo della Resistenza italiana solo nei primi anni ’60. La spiegazione è soprattutto politica: il riferimento generico all’invasore tedesco la rese una canzone più unitaria e trasversale, e accettabile da forze moderate e istituzioni rispetto alla “troppo comunista” Fischia il vento. Bella ciao in fondo dà un’immagine semplificata e più moderata della Resistenza”.

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Il libro intreccia vicende personali, familiari e collettive: quanto di Fischiava il vento nasce dalla tua storia familiare? E quanto invece è frutto di una scelta civile, politica e culturale?

“Penso che queste due dimensioni stiano insieme. Se non fossi nato in quella famiglia, in quella città (Imola), proprio in quella giornata – il 21 gennaio, giorno del compleanno del Partito Comunista Italiano – la mia vita sarebbe stata completamente diversa. Sono diventato ragazzo dentro una sezione del Partito Comunista, e negli anni è cresciuto in me il desiderio di lasciare una testimonianza di quella esperienza: della nostra voglia di cambiare il mondo, e dei motivi per cui il comunismo ci sembrava allora la risposta più giusta alla nostra spinta ideale”.

Molti pensano che la memoria della Resistenza sia qualcosa di acquisito. Tu sembri dire che è invece qualcosa da rimettere in movimento, da rinnovare. È così?

“La memoria della Resistenza è ancora oggi terreno di scontro politico. Esistono lavori importanti – libri, film, inchieste televisive – ma io non credo che il lavoro storiografico sia concluso. La storia della Resistenza somiglia a una coperta corta, tirata da tutte le parti. Nel mio libro mi limito a raccontare storie legate alla clandestinità del PCI. Sono figlio di un partigiano, e se non altro per questo non mi sento la persona più adatta a offrire una lettura pienamente obiettiva della Resistenza italiana. Anche se, in una delle prossime puntate del mio podcast, mi avvicinerò molto a quel periodo così complesso della nostra storia”.

Il 13 maggio a Siena presenterai il libro in due contesti diversi: l’Università la mattina e una libreria la sera. Cosa ti aspetti da questi due incontri? E che dialogo immagini con studenti e lettrici e lettori senesi?

“Sono molto curioso. Finora ho fatto solo un paio di presentazioni, che mi sono piaciute molto, ma giocavo in casa: tra i presenti c’erano tante persone amiche, compagni che non vedevo da anni. È stato davvero emozionante. Vedremo come andrà all’Università. Il libro è dedicato a mio figlio, che ha 25 anni, e mentre scrivevo pensavo a lui e a chi ha la sua età. Per questo ho scelto un linguaggio semplice, cercando di non dare nulla per scontato”.

Come nasce l’idea di questo libro? È un progetto che avevi da tempo o è stato il clima politico e culturale recente a spingerti a scriverlo?

“Ho lavorato in parallelo con il podcast del Post “L’Ombelico di un mondo” di cui abbiamo parlato qualche settimana fa. Ho dedicato questi cinque anni a studiare la storia degli anni ’50, persone, storie, aneddoti… ho intervistato diversi protagonisti di quegli anni e ho cercato di ricostruire la storia di comunisti italiani più o meno conosciuti. È stato bello farlo e questo divertimento spero si respiri anche attraverso la lettura del libro”.

⁠Il tuo è un libro che parla di antifascismo, ma anche di passioni, di paure, di speranze. A chi è rivolto in particolare? Cosa vorresti che restasse in chi lo legge?

“Vorrei che lo leggessero tutti. Certo che il senso di felicità che abbiamo vissuto noi che siamo stati militanti a fare politica non so se può arrivare a un pubblico tanto largo. L’amicizia, gli amori, la soddisfazione nella riuscita di una manifestazione o di una festa de l’Unità non sono facilmente raccontabili. Però nelle pagine del libro c’è anche l’amarezza delle sconfitte, delle delusioni e dei momenti in cui non siamo riusciti a fare capire le nostre idee e anche i nostri limiti nel non leggere con efficacia quello che stava succedendo nel mondo e nella pancia della società italiana”.

⁠La memoria può unire, ma a volte divide. Come si tiene insieme la fedeltà alla verità storica con la volontà di parlare a tutti, anche a chi oggi si sente lontano da quei valori?

“In questo lavoro non mi sono posto il problema. Ho ragionato più da giornalista che da storico o da politico. Questo mi ha permesso di essere libero. Non è un libro che ha come obiettivo quello di dimostrare qualcosa: vuole raccontare delle storie personali e politiche leggendo la storia del più grande partito comunista dell’Occidente capitalista attraverso la lente dei sentimenti. È un oggetto paragonabile a una fotografia in bianco e nero: simile a quella che con l’editore abbiamo scelto per la copertina, scattata da Mario Carnicelli il 25 agosto 1964 ai funerali di Togliatti”.

L’antifascismo può essere ancora un progetto per il futuro, oltre che una radice? E se sì, quali parole chiave vedi per renderlo attuale per le nuove generazioni?

“Deve esserlo. Perché il fascismo oggi assume forme subdole e insidiose. Populismo, nazionalismo, razzismo e vecchie e nuove discriminazioni di genere si manifestano ogni giorno con sempre maggiore forza, mentre le reazioni a questi fenomeni si stanno indebolendo, fiaccate da un’offensiva mediatica aggressiva, spesso costruita su notizie false, parziali o imprecise. La parola chiave, per me, è “informazione”. Informarsi davvero richiede fatica: significa scegliere con attenzione le fonti, confrontarle, e non fermarsi alla superficie. Il fascismo si sconfigge con la conoscenza. Solo così si può costruire un antifascismo che parli al presente e guardi al futuro”.

Hai un aneddoto o una pagina del libro a cui sei particolarmente legato e che ci puoi raccontare per invogliare chi ci legge a scoprire di più?

“Vi propongo una pagina buffa che ha come protagonista Andrea Marabini, uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia, duramente perseguitato dai fascisti durante la clandestinità del partito. “Durante una delle bastonature che subì dai fascisti il giovane Andrea riportò lesioni permanenti a entrambi i timpani e questo lo costrinse a portare un apparecchio acustico per il resto della vita. A questo proposito, voglio ricordare un aneddoto che lo riguarda e che mi ha sempre fatto sorridere, ma anche indotto a pensare che nel PCI le relazioni umane fra compagni di partito che, in gioventù, ne avevano passate di tutti i colori fossero genuine, e non sempre marchiate dal grigiore della burocrazia sovietizzante. L’episodio risale alla fine degli anni cinquanta e coinvolge Marabini e Palmiro Togliatti, che all’epoca sedevano vicini fra i banchi di Montecitorio. Capitò che durante una seduta plenaria, ma non particolarmente accesa, Togliatti si accorse che Marabini aveva staccato l’apparecchio acustico e stava pensando agli affari suoi. A quel punto decise di giocargli uno scherzo. Attirò la sua attenzione con scossone sul braccio dicendo: “Andrea, Andrea!” Marabini ebbe un sussulto, riaccese in fretta il suo amplificatore e chiese: “Segretario! Che cosa succede?” “Il presidente ti ha dato la parola,” sussurrò Togliatti, riuscendo a rimanere serio. “Ma guarda te… Grazie.” Con una mossa veloce Marabini si alzò in piedi, prese il microfono ed esclamò: “Signor presidente, io protesto, non ho chiesto di intervenire!” Attonito, il presidente della Camera Giovanni Gronchi lo guardò e rispose: “Onorevole Marabini, io non le ho dato la facoltà di parlare. Cerchi di stare un po’ più attento!” Marabini si sedette, si voltò verso il suo vicino di banco e lo fulminò con lo sguardo: “Ma che figura mi fai fare?” Togliatti non si trattenne e divenne rosso dal ridere. Faticò anche a parlare: “Ti distrai… Ha ragione Gronchi: cerca di stare più attento!” Questa me la paghi! replicò Marabini, ridendo anche lui”.

Ultima domanda, semplice ma importante: perché oggi vale la pena leggere “Fischiava il vento”?

“Perché racconta che in Italia si è sviluppata una comunità politica e umana composta da milioni di persone – di cui molti di noi sono figli, nipoti o pronipoti – che ha migliorato le condizioni materiali delle masse popolari. Il Partito Comunista ha dato dignità a chi, con il cappello in mano, andava a mendicare un lavoro pericoloso e mal pagato, accettando ogni forma di sfruttamento. Quel popolo, grazie ai comunisti, ha avuto un ruolo fondamentale nella crescita economica, civile e culturale del nostro Paese. Vale la pena ricordarlo”.

L’autore lo ripetiamo sarà a Siena il 13 maggio, alle 10,30 all’Università, complesso didattico San Niccolò via Roma 56; il pomeriggio alle 18,30 al Mondadori Bookstore di via Montanini 112. Con Marcello Flores e Maurizio Boldrini.

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