Post del 24 aprile
Oggi si celebra la Pasqua ortodossa, ma l’appello a una tregua (dopo l’analogo invito levato dal papa domenica scorsa in coincidenza con la Pasqua cattolica) è rimasto lì, non è stato raccolto. Ieri mattina Domenico Quirico su La Stampa ha ricordato la vicenda del Natale 1914, il primo trascorso nelle trincee della Grande Guerra, e quella decisione spontanea, quasi naturale, dei soldati che indossavano divise diverse di uscire dai buchi scavati in terra e unirsi nella notte che da sempre avevano trascorso nelle loro case, tra affetti, figli, e una serenità che la guerra si era catturata. Accadeva oltre un secolo fa. Non siamo stati capaci di ripeterlo oggi. E così la serie dei “perché” in questa stagione buia continua ad allungarsi.
Che cosa abbia in mente Putin forse è una incognita anche per i suoi consiglieri più prossimi. Paolo Rumiz, sempre ieri mattina ma su Repubblica, ne ha tracciato un profilo ripercorrendo la sua biografia, ne usciva piuttosto nitida la visione storica di una Grande Russia che ha scelto la via del conflitto con l’Europa, l’Occidente, e i suoi valori. Ma in che modo questa ideologia possa risolvere la crisi ucraina è difficile dire. Tutto lascia supporre che il piano iniziale (conquista del paese, decapitazione del governo – la famosa denazificazione – creazione di una nazione satellite sul modello della Bielorussia) sia fallita e adesso restano aperte almeno due ipotesi. Le riprendo da una intervista rilasciata da Dmitrij Suslov (capo di uno dei think thank vicini al Cremlino). Sostiene che ci siano due linee in questo momento e che il Cremlino non abbia ancora deciso quale privilegiare. La prima è quella che punta a proseguire la guerra sino a conquistare Odessa e tutta la fascia sud proiettandosi sino alla striscia moldava della Transnistria, altra zona russofila. La seconda è un accordo di pace con l’Ucraina basato sui termini della proposta russa originale: neutralità, rinuncia alla Nato, demilitarizzazione inclusi limiti alla cooperazione con l’Occidente e il tipo e quantità di armamenti in possesso dell’esercito ucraino, status della lingua russa, bando di partiti nazionalisti di estrema destra, riconoscimento ufficiale dell’annessione della Crimea e dell’indipendenza del Donbass. Odessa rimarrebbe Ucraina e i russi si ritirerebbero dal resto del territorio finora occupato. Scenario effettivamente impossibile da accettare per Kiev.
Detto ciò il tema vero è come l’Europa agisce per una tregua immediata che eviti una catastrofe umanitaria persino peggiore di quella che si è già prodotta con migliaia di civili uccisi, fosse comuni, stupri e deportazioni. La cronaca dice che una qualche forma di dialogo sarebbe ripresa dopo che le immagini di Bucha avevano per settimane spento ogni contatto. Per oggi sono attesi a Kiev il Segretario di Stato e il Segretario della Difesa americani. Martedì è programmato il viaggio a Mosca del Segretario generale delle Nazioni Unite.
Ho trovato seria la posizione di Macron: l’Europa non può rinunciare per nessuna ragione a cercare un confronto con Mosca. Deve farlo con la forza dei suoi principi (la difesa dell’Ucraina e il suo diritto a difendersi) e allo stesso tempo provando in ogni modo a evitare che la soluzione di questa guerra sia sul terreno (vorrebbe dire proseguirla per settimane, forse mesi, con conseguenze disastrose). I margini sono stretti? Si ma è una ragione in più per non delegare solo ad altri quel ruolo che storicamente l’Europa ha saputo assolvere.
Quali potrebbero essere le condizioni: il ritiro delle truppe russe; la neutralità dell’Ucraina e il suo futuro ingresso nella UE ma non nella Nato; sulle zone contese la presenza di una forza multinazionale a garanzia dei confini discutendo (oggi Zelensky si dice contrario) l’ipotesi di un futuro referendum tra le popolazioni interessate.
Quanto al capitolo sanzioni l’obiettivo è premere sulla Russia e su Putin sottraendo risorse finanziarie che in misura notevole contribuiscono alla sua azione militare.
L’Unione Europea versa quasi 1 miliardo al giorno per le forniture di gas e sappiamo quanto questa forma di dipendenza abbia pesato anche nelle scelte che l’Europa ha compiuto dopo il 2014 e l’annessione della Crimea.
Le domande da affrontare sono due: la prima è se lo strumento è davvero in grado di piegare la volontà e l’azione sciagurata intrapresa da Putin in Ucraina. La seconda è se l’Europa è in grado di costruire una unità effettiva di intenti e di azione su questo terreno.
Sul secondo punto esiste un tema specifico che riguarda la posizione tedesca, la Bundesbank è molto fredda verso la possibilità di un embargo prima al petrolio e poi al gas russo. Secondo la Banca centrale tedesca fermare l’importazione di energia russa sarebbe per la Germania un vero problema, se non un disastro con la perdita di cinque punti di Pil nel 2022 e tre punti e mezzo nel 2023, l’effetto sarebbe un obbligo a razionare il gas e il petrolio con il greggio sopra i 170 dollari al barile, un’inflazione fuori controllo, insomma la peggiore catastrofe economica dopo il 1945.
Noi stiamo affrontando questo problema cercando la massima diversificazione delle fonti di approvvigionamento (penso al contratto con l’Algeria e ai nuovi accordi stretti nella ultima delegazione in Africa dei ministri Di Maio e Cingolani). Non sono processi immediati o semplici anche perché la nostra dipendenza del gas russo è andata crescendo nel corso degli ultimi 7-8 anni, anche dopo l’annessione della Crimea. Quanto all’efficacia dello strumento delle sanzioni la storia racconta come quasi mai abbia raggiunto l’obiettivo, vale a dire imporre alla popolazione di uno Stato sottoposta a sanzione dei sacrifici tali da spingerla verso un cambio di regime. Non è accaduto così nel corso dei decenni nella vicenda di Cuba, non è accaduto nell’Iran degli ayatollah, non è accaduto persino in Corea del Nord.
Infine, sull’impatto della combinazione crisi-pandemia-guerra sulla vita di famiglie e imprese: non so se la formula “economia di guerra” sia la più corretta, ma non c’è dubbio che le conseguenze di questa stagione ricadono sulla vita materiale di troppi. Molti sondaggi (ma in questo caso non servono i sondaggi per capirlo) spiegano come a fianco alla bomba sociale (la mancanza di lavoro) oggi se ne accosta una seconda che è l’aumento dei prezzi (parliamo di pane, pasta, benzina, gas, elettricità).
La responsabilità del governo è dare una risposta immediata a questi bisogni. Dobbiamo farlo da un lato perché si tratta della vita quotidiana delle persone (gli ultimi dati ufficiali sull’impoverimento degli italiani sono impressionanti) ma dobbiamo farlo anche per non accentuare un divorzio tra i cittadini e la democrazia.
Bisogna agire su più tasti.
Un aumento dei salari utilizzando la leva fiscale per preservare il potere d’acquisto di lavoratori e pensionati colpiti dalla tassa più ingiusta che esista e che è l’inflazione.
Prevedere un salario orario minimo per disboscare la giungla dei contratti fittizi.
Ancora (come spiegato da Peppe Provenzano in una bella intervista al Manifesto) estendere i bonus per luce e gas, bloccare i canoni d’affitto, ridurre il costo degli abbonamenti ai trasporti pubblici.
Il ventaglio delle misure urgenti e possibili è ampio, ma al centro devono esserci di nuovo le persone (il voto francese del primo turno col successo di Melénchon e il fallimento socialista ce lo ha dimostrato in modo evidente: una sinistra che smette di occuparsi dei più offesi e fragili, non si limita a perdere le elezioni, ma può estinguersi).
A questo proposito, oggi si vota in Francia e la speranza è che Macron questa sera possa confermarsi presidente.
Bon, oggi lungo, scusate.
Domani a Milano alla manifestazione del 25 Aprile.
Oggi un abbraccio a chi sta marciando ancora una volta da Perugia ad Assisi.
Un abbraccio anche a tutti voi e buona domenica