E’ assunzione di responsabilità, non moderazione
Riceviamo e pubblichiamo un lungo saggio scritto da Dino Marchese…
Cosa è oggi il riformismo
Originariamente avevo pensato di titolare queste note sul riformismo imitando l’incipit di un famoso saggio di Benedetto Croce “Perché non possiamo non dirci cristiani”, del 1942.
Croce, che era senza dubbio un laico della filosofia immanente e non trascendente, probabilmente anche un ateo, trova nel cristianesimo la più grande rivoluzione della storia dell’umanità, che permea con il suo spirito la storia, anche se non necessariamente con la fede.
Avrei potuto titolare l’incipit di queste note traducendo “Perché non possiamo non dirci riformisti”? Al di là della irriverenza della citazione, riflettendo, il parallelo è del tutto sbagliato, per ragioni diciamo “funzionali”.
Certo vengono alla mente le parole profetiche di Turati al congresso di Livorno del 1921: “Ogni scorciatoia non fa che allungare la strada, la via lunga è la sola breve, perché si basa sulla maturità della coscienza delle masse”. Turati aveva pienamente ragione, come lo stesso Terracini molti anni dopo ammise davanti a Sandro Pertini, allora presidente della camera, in occasione dell’anniversario della morte di Turati.
Il problema di oggi è che tutti si definiscono riformisti; dalla destra estrema, passando per un sedicente terzo polo, al partito democratico, che non ne possiede in ogni caso il monopolio. Lo spirito del riformismo rifugge, come la peste, i monopoli. Oggi persino buona parte della sinistra radicale, vuole definirsi riformista, con la sola esclusione di un estremismo, fuori non tanto dalla storia, ma dal buonsenso.
A differenza del cristianesimo, il cui spirito, ci piaccia o meno, ha fatto una rivoluzione, i riformisti non debbono, non vogliono fare nessuna rivoluzione; il concetto è estraneo all’anima del riformismo.
Detto in altri termini: se tutto è riformismo, niente è riformismo.
Allora mi viene in mente un articolo di Federico Caffè, del 1982, che delinea un percorso opposto alla affermazione: “Ormai siamo tutti riformisti”.
L’articolo si intitola “La solitudine del riformista”, è stato scritto per “Il manifesto”, giornale a cui Federico Caffè collaborava regolarmente, chiamato da Pintor a commentare i fatti economici, lui che si definiva un riformista collaborava ad un giornale della sinistra radicale.
Non sto a ricordare chi fosse Federico Caffè, maestro di molti economisti, di diversi orientamenti, compreso Mario Draghi, probabilmente l’esponente più puro del pensiero di Keynes in Italia, critico deciso del pensiero liberista, che amava dire: “Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio”.
Il ragionamento di Federico Caffè è originale, quanto nitido e schietto, vale la pena di citarlo letteralmente, tale è la chiarezza.
“Il riformista è ben consapevole di essere costantemente deriso da chi prospetta future palingenesi, soprattutto per il fatto che queste sono vaghe, dai contorni indefiniti e si riassumono, generalmente, in una formula che non si sa bene cosa voglia dire, ma che ha il pregio di un magico effetto di richiamo.
La derisione è giustificata, in quanto il riformista, in fondo, non fa che ritessere una tela che altri sistematicamente distrugge. È agevole contrapporgli che, sin quando non cambi il «sistema» …
Anche dal lato opposto il riformista è solo perché “…è anche consapevole che alla derisione di chi lo considera un impenitente tappabuchi (o, per cambiare immagine, uno che pesta acqua nel mortaio), si aggiunge lo scherno di chi pensa che ci sia ben poco da riformare, né ora né mai, in quanto a tutto provvede l’operare spontaneo del mercato, posto che lo si lasci agire senza inutili intralci: anche di preteso intento riformistico. Essendo generalmente uomo di buone letture, il riformista conosce perfettamente quali lontane radici abbia l’ostilità a ogni intervento mirante a creare istituzioni che possano migliorare le cose”.
Credo che Federico Caffè avesse ragione nel proporre una lettura della solitudine del riformista, la differenza è forse che, mentre ieri, la solitudine derivava dallo scherno contrapposto di chi immagina future palingenesi e di chi pensa che il mercato contenga già tutte le risposte, oggi la solitudine deriva, paradossalmente, dalla dilatazione del concetto di riformismo.
Oggi praticamente nessuno dichiara di volere fare la rivoluzione, come nel 1921. Il sovvertimento violento delle istituzioni era l’unica vera alternativa al riformismo; il massimalismo, cioè il programma massimo, non era considerato credibile neanche dai comunisti, perché mancante del rigore della rivoluzione, come emerge dagli scritti di Gramsci ad esempio.
Ora che la prospettiva rivoluzionaria è scomparsa, salvo che in sparute frange senza reale seguito, possiamo dirci tutti riformisti?
La risposta a questa domanda non può essere che un no!
Per almeno due ragioni. La prima è quella che chiamo “la dannazione del riformista”. Il riformista non può permettersi di vivere una dimensione escatologica: è per destino naturale un laico, il riformista vive solo nella storia e non fuori da essa.
È nell’ordito e nella trama della storia, spesso caotici, che individua gli ostacoli alla realizzazione degli ideali di equità. Non può permettersi il conforto di una città del sole, dell’attesa messianica di un rivolgimento generale, e questo perché la vera cifra del riformismo è la responsabilità.
La assunzione della responsabilità del migliore “compromesso possibile”. Compromesso non è una parolaccia: etimologicamente vuol dire promettere insieme. Il grande scrittore pacifista Amos Oz scriveva “Nel mio mondo la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”.
Questo però comporta una fatica supplementare per il riformista: decidere quello che è negoziabile, rispetto a quello che non è negoziabile. È una operazione indispensabile.
Se niente è negoziabile non c’è riformismo, se tutto è negoziabile non c’è riformismo, e la dichiarazione del sedicente riformismo si trasforma in un opportunismo di bassa lega.
Quest’ultimo è infatti il pericolo più grande che rischia di trasformare il riformismo in una parola malata; la caduta culturale nella capacità di analisi della società contemporanea, delle trasformazioni e delle disarticolazioni del conflitto. In questo limite molti a sinistra ricadono, compresi anche coloro che si dichiarano più puri degli altri.
L’esito inevitabile è la tenaglia tra un camaleontismo fine a sé stesso senza scala di valori, senza gerarchie di priorità, senza gradualità.
È il comportamento del così detto “terzo polo”, che riprende in do minore i fasti della “terza via” in una politica d’abord da nave corsara.
La politique d’abord, come noto, è la politica avanti a tutto, anche ai reali rapporti di classe nella società.
Dall’altro lato c’è l’utopia astratta, fatta di parole d’ordine, più che di processi costruiti nella coscienza delle masse, unica via per cui, come diceva Turati, “la via lunga è poi la più breve”.
In mezzo a questi estremi sta la politica distante dalla gente, del tenere insieme i due livelli dei valori e degli interessi concreti su cui far camminare le idee.
Il riformismo ed il populismo
La seconda ragione, che inchioda i riformisti ad una solitudine, è oggi rappresentata dall’emergere, su scala mondiale del fenomeno del populismo.
Intendiamoci il fenomeno del populismo è di data antica, è sempre stato un ospite scomodo delle democrazie, dal fenomeno dell’Uomo qualunque in Italia, nel dopo guerra in Italia, al Poujadismo in Francia, ai populismi al potere di tipo peronista.
Ma la differenza odierna è che, per la prima volta, si presenta come un movimento transnazionale che esplode in periodi più o meno simultanei a seguito della crisi economica del 2008.
Il tratto distintivo è una estensione senza precedenti nella storia, dalla Brexit in Gran Bretagna, al fenomeno di Trump, proprio nel cuore del sistema capitalistico, alla Catalogna, al Movimento 5 stelle, fondato non a caso nel 2009, poco dopo il 2008, all’esplosione in termini di consenso politico a Marine Le Pen, sino a farla divenire una candidata credibile per la presidenza della repubblica, dopo un’azione parricida, ai nazionalismi dei paesi dell’est europeo, sino al revanscismo nazional-popolare di Putin.
La crisi del 1929 ha dato fiato ai fascismi in Europa, la crisi del 2008, la seconda per gravità ed estensione dopo il ‘29, ha prodotto la nascita del moderno nazional-populismo, su scala mondiale, che non è fascismo, ma contiene alcuni caratteri simili al fascismo.
Ci sono ovviamente delle differenze tra i movimenti politici di cui ho parlato prima, tuttavia le somiglianze sono molto maggiori, profonde ed estese, per la prima volta nella storia.
Con alcuni di essi, molto pochi per la verità, sono possibili, in base alla evoluzione, degli accordi tattici, ma non strategici, senza confusione, sulla base di una chiarezza politica che vede i riformisti come antagonisti culturalmente al populismo.
Quello che separa i populisti dai riformisti è proprio il concetto di popolo; ed è un crepaccio impossibile da colmare.
La parola “popolo” in sé è polisemica, cioè, assume di volta in volta significati diversi; la comunità, la stirpe, i poveri, la plebe, gli operai, la classe, il pubblico e tanto altro ancora.
Questo è un punto dirimente, per rifondare una idea di una sinistra riformista, seppure a volte necessariamente radicale. Il concetto della sovranità del popolo è giusto, ma è anche una invenzione giuridica, che, se non maneggiata con cura, rischia di trasformarsi in una impostura.
La sovranità del popolo è servita, ai filosofi illuministi, per abbattere l’idea dell’ancien regime della sovranità che discende direttamente da Dio, ed è stata una grande innovazione politica.
La parola popolo, però, vuol dire tutto e niente: o è una parola troppo ampia, da essere inservibile, specie in un mondo sempre più interconnesso, oppure diventa un concetto escludente, che scivola verso il nazionalismo peggiore, od addirittura verso un nuovo razzismo. La storia recente dei movimenti populisti, nel mondo intero, dimostrano che questo è il destino di quella che Rousseau, non a caso l’interprete più estremo della sovranità popolare, chiamava “la volontà generale”.
I comunisti erano ben coscienti della aporia del concetto di “sovranità popolare”, ed infatti amministravano la sovranità popolare non in nome del popolo come è, ma come doveva diventare. Poi si dividevano tra chi pensava ad una vera e propria dittatura, nel nome del popolo da liberare, Lenin con tutto quello che ne consegue, e chi invece aveva elaborato il concetto complesso di egemonia, Gramsci. In ogni caso non era un governo del popolo come esso era, ma come il popolo dovesse diventare. Insomma, il concetto di popolo dei comunisti era strettamente legato ad un processo di educazione dello stesso.
I populismi odierni, invece, intendono rappresentare il popolo come esso è allo stato attuale, con lo slittamento inevitabile, di cui ho parlato prima, verso forme di nazional-populismo, al di là delle intenzioni dei singoli.
I padri costituenti italiani erano anch’essi coscienti della aporia del concetto di sovranità popolare, perché all’art 1, dopo aver affermato che la sovranità appartiene al popolo, hanno immediatamente aggiunto che il popolo esercita la sovranità nelle forme e nei limiti, previsti dalla Costituzione. Poiché si tratta del medesimo comma, non è possibile equivocare sul fatto che nella Costituzione la sovranità del popolo non sia assoluta.
È un destino singolare che molti leggono la costituzione, tagliando la parte che non conviene alla loro tesi: accade per esempio sull’articolo relativo alla guerra, accade sulla iniziativa privata, accade per l’art 49 sui partiti politici.
Comunque, va ribadito che la nostra Costituzione non è una Costituzione populista, anzi si può affermare che è una costituzione anti-populista. A quanto mi risulta, è l’unica costituzione, tra le costituzioni moderne, non ottriate, che parla esplicitamente di limiti alla sovranità popolare.
È in questo spazio tra la narrazione della sovranità del popolo come è, e quella del popolo come dovrebbe essere, che si configura il luogo di elezione del riformismo.
Il PD ha, per ragioni storiche, la tendenza a schiacciarsi sul secondo corno del dilemma, rappresentare il popolo per come dovrebbe essere, e questo lo porta ad apparire, come si dice, un partito della ZTL, troppo di avanguardia, cosa che un partito con quel consenso non può permettersi, chiuso e lontano dalle masse; tuttavia, è anche oscillante più volte verso la prima parte del dilemma, rappresentare il popolo come è, o perlomeno tentare di rappresentarlo per come è, con risultati altrettanto deludenti.
Voglio fare due esempi di questa tendenza. Il primo riguarda la scelta della gestione Zingaretti, di votare a favore della riduzione del numero dei parlamentari nel referendum confermativo, rimandando ad un momento successivo la riforma elettorale, e delle competenze di Camera e Sanato. Quello è stato un errore gravissimo, che ha visto prevalere le esigenze tattiche e politiciste, rispetto ad un minimo di strategia. Si è trattato di un riformismo immaginario. Il riformismo è assunzione di responsabilità, scevro da politique d’abord; è stato un misto di rinuncia e di estremismo. L’estremismo, diceva Vittorio Foa, non è radicalismo, che comunque parte sempre dalla realtà, non dalla propria rappresentazione del mondo.
Il secondo esempio riguarda la stagione della gestione di Renzi. In Matteo Renzi si ravvisano i tratti paradigmatici del leader populista; fa parte della generazione post-democristiana, senza possedere la parte migliore dei democristiani il senso rigoroso dello stato. Per una breve, ma molto intensa, stagione il populismo di Renzi ha parlato alla pancia del paese, mischiando la retorica della rottamazione, che non è rinnovamento, con una spregiudicatezza e decisionismo, come si è visto nel proclama che legava il suo destino politico con l’approvazione della sua riforma costituzionale.
Questo non può essere semplicemente derubricato ad errore, perché è un tratto tipico dei leader populisti.
I populisti, avendo alla base una idea generica di popolo, e di sovranità popolare, hanno uno strutturale bisogno di un leader carismatico, che interpreta i bisogni del popolo, e la cui interpretazione non può essere messa in discussione.
La denuncia della incompatibilità culturale, prima ancora che politica, del riformismo con il populismo, tuttavia, non può fare dimenticare una questione esiziale per il riformista: capire le ragioni della crisi di rappresentanza della politica, e dei partiti politici.
Il riformismo trova il suo brodo di coltura nella crescita e sviluppo delle istituzioni della democrazia rappresentativa, nella partecipazione alla vita politica: fuori da queste regole della rappresentanza, il riformismo è un morto che cammina.
Certo ci sono le malefatte della fase terminale della prima repubblica, e le ancor peggiori malefatte della seconda repubblica, sino a far rimpiangere la prima, ma questo non spiega l’essenza, non spiega la estensione sovranazionale del fenomeno della disaffezione. Questi elementi, pur veri, non spiegano perché il fenomeno della disaffezione colpisca prevalentemente le forze progressiste, più che quelle conservatrici, senza che queste ultime siano più indenni da fenomeni corruttivi e di conflitti di interesse.
Sembra che alla fine abbia avuto ragione il sociologo tedesco, naturalizzato italiano, Robert Michels, il più famoso analista dei partiti di massa, del secolo scorso, quando i partiti di massa sorsero, e che teorizzò che con i partiti di massa si determinava una “legge ferrea delle oligarchie”.
“In parlamento i partiti politici, maggioranza ed opposizione, fanno finta di lottare: il loro scopo è di farsi rieleggere e di perpetuarsi al potere”. Questa frase, scritta più di cento anni fa, potrebbe essere scritta nel blog dei 5 Stelle.
Gramsci, nei quaderni dal carcere, fu un feroce critico delle teorie di Michels, definendole come “truismi”, cioè verità talmente ovvie che sarebbe banale enunciarle. Il punto è perché questi “truismi” oggi diventano senso comune; sfido chiunque a non avere sentito più volte affermare, nei colloqui di strada o nei bar, una frase simile a quella di sopra.
La scorciatoia del movimentismo
Il crollo delle grandi ideologie del passato ha avuto come effetto la trasformazione dei partiti in movimenti, come scorciatoia per il mantenimento del potere. Questo, come nella fiaba di Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore”, ha mostrato il re nudo.
La mia teoria è che questo ha fornito un vantaggio strategico, e non tattico, alla destra sovranista, perché nel messaggio che trasmette è la parte meno “pragmatica”, mantiene, cioè, un doppio registro; vorrei fare diversamente, ma le circostanze non me lo permettono. Da un lato si può acconciare a scelte pragmatiche, ma dall’altro, con dichiarazioni e commenti mantiene alta una visione xenofoba e nazionalista. Con contenuti evidentemente diversi, come meccanismo, è simile alla doppiezza di Togliatti.
La tendenza alla scorciatoia della trasformazione dei partiti in movimenti è, a mio avviso, svantaggioso per una sinistra riformista, e, peraltro, spinge anche la sinistra radicale fuori dal novero delle opzioni politicamente praticabili.
La caratteristica essenziale del riformismo è di non rinviare a tempi migliori la risposta alle esigenze di giustizia ed uguaglianze, ma di compromettersi qui ed ora per una risposta possibile. Come scrive nei diari Bruno Trentin “Non possiamo più sacrificare l’oggi per il sole dell’avvenire. Ma possiamo oggi aprire degli squarci di luce; dimostrando qui e ora che è possibile”
Questo, tuttavia, comporta una fatica aggiuntiva, per la sinistra riformista: la fatica di conoscere e capire la società intorno a sé. I processi, le rivoluzioni passive, le trasformazioni nei luoghi dove si determinano i processi di creazione del valore, sociale ed individuale.
Scelgo un indicatore a caso, tra i molti che mi vengono in mente, di questa scissione: la scomparsa dall’orizzonte di ogni discussione sulla democrazia economica, come se il tema della democrazia riguardasse tutte altre cose, tranne il lavoro, che rimane terreno esclusivo di dominio di chi detiene il potere.
Eppure, il numero di coloro che “lavorano sotto padrone” nelle più varie forme e modalità, dai rider alle false partite IVA aumenta, come ci dicono molti studi internazionali.
La sinistra accumula le più svariate rivendicazioni, molte delle quali giuste, alcune decisamente fuori luogo dal contesto, senza avere una visione unitaria delle proprie rivendicazioni.
L’esempio tipico è l’uso della parola “rinnovamento”, che spesso finisce per essere un cambio, più o meno pilotato, per fare più o meno le stesse cose: è un rinnovamento senza innovazione, senza ricerca. La cifra della sinistra riformista, nel mondo di oggi, deve essere il socialismo come ricerca ininterrotta e non come un modello predefinito di società, senza una finalità da raggiungere una volta per tutte, la storia non ha una fine, e non ha un fine.
Alterare l’ordine delle cose stabilite per fare cose nuove, non costruire ex novo sul nulla. La innovazione incorpora sempre al proprio interno ricombinandole saperi, esperienze e idee.
Temo che la scelta di quello che si proclama come il maggiore partito riformista di quella che chiamo “scorciatoia movimentista” esclude una struttura in grado di fare quella indispensabile ricerca, trasformandosi in un partito che “sventola” obiettivi, come fossero bandiere, senza conoscenza.
Dove sono i centri di ricerca che una volta marcavano, anche da posizioni diverse, una egemonia culturale? Dal centro per la riforma dello stato, dal CESPE, a Mondo Operaio, alla stessa SPES.
Le uniche discussioni che appassionano i circoli del PD sono quando si deve decidere chi farà il prossimo sindaco, per il resto morta gora.
È come se la scomparsa della prospettiva rivoluzionaria, invece di aprire maggiori spazi alla prospettiva riformista, lo ha rinchiuso tra le alternative letali del trasformismo ed opportunismo e del massimalismo, oggi peraltro interpretato meglio dai movimenti populisti.
Eppure, è grazie alla iniziativa politica del riformismo che si sono realizzate le più grandi conquiste delle classi e dei soggetti subalterni nella storia dell’intera umanità. Parlo dello stato sociale, della crescita potente dei diritti individuali. I diritti individuali ed i diritti economico-sociali, nei gloriosi trenta anni dal dopo guerra si sono “dati la mano” su dimensione planetaria. I due termini di libertà ed uguaglianza, per una lunga stagione, non sono stati in contrapposizione.
Bisogna esaminare le condizioni perché ciò possa essere riproposto nel mondo futuro.
In primo luogo, c’è la rottura culturale con la “vulgata leninista”
Per esprimermi con l’ultimo libro di Bruno Trentin “La libertà viene prima”. La tesi di Trentin è che il conflitto sociale del futuro inevitabilmente comporta che le battaglie comportano una forte domanda di libertà prima della richiesta della redistribuzione del reddito. La domanda di libertà è la precondizione di ogni battaglia redistributiva, non si può prescindere da una forte domanda sulle condizioni di svolgimento della prestazione lavorativa.
Questo rimette al centro la questione del lavoro nella società contemporanea in una maniera moderna. La questione del lavoro, che si credeva marginalizzata, ritorna prepotentemente al centro della iniziativa politica della sinistra attraverso una domanda di conoscenza, di formazione, appunto di libertà. Sapere cogliere questa domanda è il compito nuovo, non basta più invocare la redistribuzione.
Il secondo punto di rottura riguarda l’alleanza sociale che ha consentito la conquista più importante della sinistra nel dopoguerra, mi riferisco alla grande costruzione dello stato sociale, che si è potuto realizzare dall’incontro tra il movimento dei lavoratori con la parte più avveduta ed aperta della borghesia. Keynes e Beveridge non facevano certamente parte del movimento dei lavoratori, erano esponenti illuminati della alta borghesia del tempo. La conquista dello stato sociale non è stata solo un progetto di redistribuzione del reddito, ma, insieme ha aperto a nuovi diritti di libertà, ed ha sostenuto per lungo tempo lo sviluppo attraverso la crescita della domanda globale; praticamente c’è stata una positiva convergenza di interessi. È stata la più importante rivoluzione reale del secolo scorso. Non è stata solo una convergenza sociale, ma si è anche collocata nel contesto internazionale, vedendo il movimento dei lavoratori saldamente incardinato nel fronte occidentale. Non sto soltanto parlando di Bad Godesberg e del socialismo dei paesi nordici, ma anche dei partiti comunisti europei. In questo caso il processo è stato più graduale, che comunque si fondava su una base materiale solida, il riformismo del PCI era l’erede materiale di quel riformismo “padano” di prampoliniana memoria, umanistico. Al di là delle formali ammissioni, le condizioni “di classe”, la pratica riformista degli amministratori hanno fatto la differenza, sino al progetto dell’eurocomunismo e delle rivoluzionarie affermazioni di Berlinguer del 1976.
Ovviamente la esplicitazione della parola “riformisti”, negli ambianti del PCI, stentava ad essere riconosciuta, con effetti anche di una torsione comica, veniva preferito il termine di “riformatore”, che sul piano pratico voleva dire la stessa cosa, senza rinunciare, in via teorica, alla rivoluzione, come prospettiva escatologica.
In pratica il PCI era un partito riformista, nelle battaglie concrete, nel governo delle grandi città, anche più del “cugino” riformista” del PSI, dentro un guscio che formalmente ne negava la essenza.
Anche la stessa contestazione del “modello di sviluppo” e le sacrosante battaglie per la liberazione di popoli oppressi, o resi oppressi dalle politiche degli Stati Uniti, della CIA, al fondo avevano il marchio di battaglie condotte esattamente nel nome degli stessi principi di libertà e democrazia, che non potevano certo ascriversi al blocco socialista. Semmai la connessione internazionale era più forte coi movimenti di democrazia radicale che andavano crescendo esattamente nel cuore dei paesi a capitalismo avanzato. C’era, è vero, un filone “terzomondista” o esotico, che subiva le influenze della rivoluzione culturale cinese, o di Cuba; tuttavia, spesso era la mancanza di conoscenze fattuali, che ne creava la mitologia.
Quello che, ai fini di questo saggio, mi interessa sottolineare è che nel secolo socialdemocratico si è potuta realizzare una straordinaria e prolungata esperienza di conquiste, grazie ad un” patto” tra il riformismo, compresa anche la variante più radicale, e la parte più aperta della borghesia colta.
L’alleanza per un nuovo welfare, il cambiamento delle classi sociali
Il punto che mi interessa esaminare è se, nelle condizioni odierne, per la sinistra riformista la strada privilegiata debba essere la riproduzione di un “patto” con la parte più aperta della borghesia colta.
Premetto che, nella logica di questo saggio, sarebbe la risposta auspicabile, perché la più corrispondente agli effettivi, e non immaginari, progressi stabili delle classi subalterne.
Tuttavia, questa risposta, a mio avviso, non è affatto scontata, per diverse ragioni.
In primo luogo, la borghesia è diversa dalla borghesia del periodo del “compromesso socialdemocratico”: la borghesia non è solo stato un sistema di dominazione economico e sociale, bensì ha prodotto una grande cultura, che ha trasformato il precedente ancien regime. Ha anche prodotto una importante cultura politica; sarebbe troppo complesso esaminare i grandi cambiamenti; è sufficiente dire che il capitalismo finanziario, impersonale e la proprietà diffusa hanno intaccato la capacità di “produrre cultura” della borghesia.
La borghesia non è identificabile tout court con il capitalismo, anche se l’affermazione della classe dei borghesi è stata la necessaria premessa del secondo. La borghesia definisce anche una dimensione di educazione e formazione, di moderazione e scetticismo.
L’incarnazione tipica di questi valori è stata la figura di Jules Michelet, storico e umanista, gran sostenitore dei diritti civili, od anche Locke, o Beniamino Franklin.
La evoluzione del capitalismo predatorio, la finanziarizzazione alla fine hanno ucciso i valori originari.
Del resto, lo stesso Keynes si esprimeva così riguardo al capitalismo: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. In breve, sto cominciando a disprezzarlo. Ma quando mi chiedo cosa mettere al suo posto rimango estremamente perplesso”.
Il punto, che voglio sottolineare, è che quei valori di moderazione, misura, tatto ed inclusione sono stati travolti culturalmente dalla evoluzione recente del capitalismo.
Di recente in Francia sono usciti due saggi politici, che mi sembrano significativi della trasformazione di cui parlo.
Il primo di Nicholas Chemla “Anthropologie du boubour”, letteralmente vuol dire il borghese-burino. Descrive l’affermarsi di una figura sociale che ostenta un ego del peggiore maschilismo, simboli di potere, discorsi antintellettuali, e falsamente trasgressivi.
Sembra il ritratto del nostro generale Vannacci, che, secondo l’autore non è una semplice macchietta folcloristica, ma ha radici culturali profonde nella crisi della borghesia. Con queste tendenze bisognerà farci i conti, perché sono una deriva naturale delle democrazie, come lo fu a suo tempo il Poujadismo.
In fondo per gli antichi greci il termine demagogia non vuol dire “potere del popolo”, ma trascinare il popolo, come ricorda Polibio, che usa il termine oclocrazia, come forma degenerata di democrazia, anche la democrazia può assumere forme degenerate.
L’altro libro è di Thibault Muzergues “La quadratura delle classi come le nuove classi sociali sconvolgono il sistema dei partiti in occidente”.
La tesi è che la crisi del 2008 ha trasformato significativamente le classi sociali, e la loro domanda politica. Le tradizionali fratture sociopolitiche, che identificavano, sommariamente, destra e sinistra, hanno lasciato il posto a differenze tra “vincenti” e “perdenti”. I vecchi blocchi sociali non si identificano necessariamente nelle attuali categorie dei “vincenti” e dei “perdenti”.
Certo è più facile trovare chi ha il potere economico tra i “vincenti”, e sicuramente tra le categorie dei perdenti troveremo le classi più deboli. Tuttavia, quello che cambia è la percezione che di sé hanno i membri di queste classi. Se dovessimo esprimerci in termini marxisti quello che conta non è la classe in sé ma la classe per sé.
Perché prendo a riferimento la crisi del 2008? Intanto perché è la crisi, per profondità ed estensione, più rilevante del capitalismo, dopo quella del 1929, anzi la globalizzazione ne ha permesso la più rapida diffusione mondiale. In secondo luogo, perché, come già affermato in precedenza, a seguito di quella crisi si è sviluppato la “internazionalizzazione” dei fenomeni populisti. In terzo luogo, perché alla crisi del 2008, i cui effetti sulla liquidità, e persino sulla solvibilità degli stati sono durati oltre il 2010, si è aggiunta, a livello globale, la crisi dei migranti e dei rifugiati, iniziata nel 2013. Il numero dei rifugiati e degli sfollati interni è arrivato a quasi sessanta milioni, il più alto dalla Seconda guerra mondiale!
Se a questi fenomeni si aggiunge, in sequenza, la crisi pandemica, anch’essa a livello globale, la più grave crisi sanitaria mondiale dai tempi della influenza spagnola, possiamo dire che l’umanità ha attraversato la più grave crisi mondiale per un più ampio periodo.
Non dovrebbe meravigliare che le classi sociali possano percepirsi in maniera differente da come ce le immaginavano tradizionalmente, e che le domande politiche si trasformino.
In questo drammatico quadro, non c’è da rimanere sopresi se gli operai siano preda di una “rivoluzione conservatrice”, sentendosi una minoranza perdente, pur significativa. Si è determinata, a livello globale, quella “mutazione, di cui parla Luca Ricolfi, per cui tra gli operai i partiti più rappresentativi si collocano nella destra.
È l’effetto delle promesse tradite, a seguito della fine del comunismo, di un futuro migliore per sé ed i propri figli, di un ceto medio che si allargasse, progressivamente, di un futuro di equilibrio e di pace.
Quelle promesse si sono frantumate a partire dalla crisi del 2008.
Questa “rivoluzione conservatrice” tra gli operai è evidente in tutti i paesi occidentali, a partire dalle due più antiche liberaldemocrazie del mondo: la Francia e Stati Uniti. Questo effetto è ovviamente presente anche in Italia, dove il primo partito tra gli operai è Fratelli d’Italia, che stacca di molto il PD.
Si tratta di una trasformazione strutturale, certo esiste anche tra gli operai il fenomeno della disaffezione al voto, della astensione; tuttavia, questo non vuol dire che se ci fosse meno astensione il segno politico del voto operaio cambierebbe. È sempre discutibile attribuire il possibile voto degli astenuti.
Contesto due opinioni, che circolano per la maggiore. La prima, appunto, è che sia sufficiente una maggiore radicalizzazione della proposta politica della sinistra per recuperare il voto degli astenuti. Era l’idea di Fausto Bertinotti, ma non ha funzionato; a sinistra oggi c’è l’imbarazzo della scelta di offerte, anche molto radicali, e tuttavia on cambia nulla nel segno del voto operaio.
L’altra affermazione, che voglio contestare, è che il PD sia diventato semplicemente il partito della ZTL, troppo attento alle rivendicazioni dei diritti delle minoranze, e, per questa ragione, poco attento ai bisogni degli operai. Questa affermazione contiene, evidentemente, una parte di verità, ma finisce per essere completamente inutilizzabile per una azione politica. Le battaglie per i diritti delle minoranze vanno valutate in relazione alla loro giustizia, agli altri interessi legittimi coinvolti, alla fattibilità concreta, non in contrapposizione ai diritti di altri soggetti.
Questa contrapposizione finisce per essere paralizzante, una specie di autodafé interno, che condanna alla paralisi. Tra l’altro mi sembra dipinga un prototipo di operai, che, non credo corrisponda alla realtà. Ritenere di avere trascurato gli interessi degli operai implica una azione concreta per recuperare, non l’uso paralizzante della scusa della ZTL. Il gruppo dirigente dei socialisti e dei comunisti di una volta era anche composto di fior di intellettuali colti, e personaggi di elevata origine sociale, e nessuno ne contestava la rappresentatività tra gli operai. Il problema vero era la capacità di trasformare in proposta politica i bisogni.
Dietro a questa affermazione c’è una idea “razzista” degli operai: gli operai riconoscono le qualità intellettuali; non sono la “rude razza pagana” per rimettere a posto le cose. Ho avuto la ventura di conoscere molti operai nella mia vita, nella mia storia di dirigente della CGIL, ma non ho mai conosciuto un operaio “operaista”.
Comunque, la questione della rappresentatività tra gli operai della sinistra rimane una questione decisiva. Gli operai non sono una minoranza tra le altre, sono al centro del sistema produttivo, in ogni caso. Il lavoro operaio cambia e si trasforma, e senza gli operai non si cambia il paese.
Tornando alla domanda iniziale che mi sono posto, e cioè se ci siano le condizioni per un nuovo patto riformista, tra la parte più avanzata della sinistra e la parte più aperta della borghesia, credo che le condizioni siano più difficili dei tempi del compromesso socialdemocratico, per via della crisi di rappresentanza che attanaglia entrambi.
Tuttavia, a questo punto, sorregge la seconda parte dello slogan gramsciano “l’ottimismo della volontà”, perché è mia profonda convinzione che le alternative siano peggiori. Ovviamente sto parlando di un dialogo che parta dalla società, non di un mero accordo politico.
Le ambizioni di rappresentare il “centro” in Italia sono una specie di millantato credito, come si è visto dai risultati totalmente deludenti delle due forze politiche, litigiose tra loro nelle ultime elezioni europee. Chi voleva rappresentare il “centro” nella coalizione di centrodestra è risultato più credibile per gli elettori, perché alla fine ha mostrato una unica leadership, con linguaggi coerenti. La coerenza in politica paga, rispetto alla litigiosità.
Il buon risultato del PD è dovuto soprattutto all’atteggiamento di serietà e di unità interna, che non si è fatto trascinare in polemiche con i possibili alleati.
La parte difficile comincia ora, quando si tratta di costruire alleanze coerenti.
Per questo compito possono tornare utili i vecchi fondamentali del riformismo.
Il cuore del riformismo non è la moderazione, anche se diverse volte la moderazione serve, e non è mai il trasformismo,
Quello di cui, non solo in Italia, ma a livello europeo, e nel mondo, servono:
Laicità, cioè principio di realtà.
Assunzione di responsabilità, per essere credibili.
Gusto della ricerca, per uscire dalla comfort zone scontata. In una delle ultime interviste prima di morire Eugenio Scalfari, collocava Enrico Berlinguer accanto ad altri due riformisti italiani: Piero Gobetti e Carlo Rosselli. Quello che accomunava i tre era appunto la capacità di rompere con la propria “zona di conforto”, esplorare terreni nuovi per cambiare il paese.
Capacità di conoscere, con umiltà, le trasformazioni della classe operaia, studiare, e proporre risposte credibili.
Questo “quartetto”, che forma il nucleo del riformismo, è ancora indispensabile. Non serve un accordo senza anima con il populismo, che alla fine delega alle forze populiste la rappresentanza popolare, come per tempo hanno teorizzato alcuni esponenti di primo piano dentro il PD, arrivando addirittura ad una inopinata nomina sul campo, a prescindere da curriculum e contenuti, di Giuseppe Conte come federatore della sinistra. Quello che serve è invece un confronto basato sul realismo, senza tuttavia cedere mai sui principi della democrazia rappresentativa.
Rimane, a mio avviso, per la sinistra riformista, la necessità di un dialogo, ed anche di una alleanza, con la parte più avveduta, della borghesia, cosciente degli effetti delle “promesse tradite” dopo il crollo del comunismo.
Questa alleanza è più rilevante, della eventuale alleanza coi populismi, se si vuole trasformare un mondo che non ci piace, e non solo fare opera di testimonianza.
È più rilevante della eventuale alleanza con parte del populismo dal punto di vista culturale. Perché il centrosinistra deve andare oltre i vantaggi forniti dalle promesse mancate del centrodestra, altrimenti dopo una destra al comando verrebbe fuori un’altra destra.
È ovvio che gli errori, e le promesse mancate, vanno sfruttati, ma ci vuole qualcosa che vada oltre. La posta in gioco, nel mondo e non solo in Italia, è di radicare stabilmente il centrosinistra in un rinnovato orizzonte valoriale a sostegno della liberaldemocrazia, ancorata ai principi repubblicani, e della democrazia rappresentativa.
E tuttavia questa alleanza non va sbrigativamente confusa con la autorappresentazione politica di un “centro”, sinora assolutamente deludente, in termini di consenso e di credibilità, ma è in primo luogo un confronto culturale con la parte dei punti nevralgici più cosciente degli errori, e dei rischi, per la stessa democrazia liberale, del capitalismo predatorio.
È l’orizzonte in cui può trovare compimento tutta la storia della sinistra italiana riscattando i suoi errori ed anche i suoi ritardi.
Nel discorso di Martin Luther King “I have a dream”, che ha cambiato per sempre la storia degli Stati Uniti, c’era la capacità di tenere insieme lo slancio profetico della utopia, con la riaffermazione rigorosa delle regole che rendono la convivenza sociale possibile.
Andava oltre la contingenza del momento, per parlare alle menti ed ai cuori delle persone. Senza questo orizzonte, che va oltre l’alleanza con parte del populismo, la sinistra non potrà vincere in maniera durevole.
La credibilità è alla fine la via, che, come diceva Turati, sembra lunga, ma che tuttavia è la più breve, anche per costruire alleanze solide.
Dino Marchese