Milano, rendita e politica: oltre la retorica, dentro la città

Come l’urbanistica è diventata ancella del mercato e perché la sinistra deve rimetterla al centro

Milano è oggi uno dei centri urbani più dinamici d’Europa. È al tempo stesso motore economico, vetrina culturale e calamita per investimenti. Ma questa trasformazione ha un costo sociale crescente: i prezzi degli immobili aumentano, gli affitti si impennano, lo spazio pubblico si restringe, mentre la possibilità di abitare la città per chi la lavora si riduce. La rendita è diventata il vero perno dell’economia urbana. Non si genera ricchezza producendo, ma possedendo. Il mercato immobiliare riflette questa logica: prezzi oltre i 5.000 euro al metro quadro, in centro più del doppio. Il risultato è una città che funziona sempre più per chi investe e sempre meno per chi vive.

In questo contesto, il ruolo della politica appare sempre più marginale. Il potere pubblico non dirige, ma amministra. Non corregge, ma accompagna. Le trasformazioni urbane — come quella dello stadio di San Siro — sono affidate a soggetti privati e pensate per massimizzare il valore di mercato, non quello sociale.

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La pianificazione è diventata branding territoriale, la città un prodotto da rendere competitivo, attraente, redditizio. È così che l’urbanistica è stata espulsa dall’agenda politica, ridotta a materia tecnica, sottratta al confronto pubblico sul rapporto tra città e società.

Ma l’urbanistica non è neutra: è lo strumento che può regolare il mercato, ridurre la rendita, costruire visioni di sviluppo eque e condivise. È, o dovrebbe tornare a essere, il cuore di una politica democratica del territorio.

Il problema non è solo il prezzo delle case o la svendita di spazi pubblici, ma l’intero modello urbano. È la rinuncia a pensare Milano come spazio condiviso e non semplicemente come luogo di estrazione di valore. È la ritirata della politica dal suo compito fondamentale: direzionare, regolare, redistribuire. Le questioni morali e simboliche — le mani pulite, le biografie, le dichiarazioni d’intenti — diventano accessorie se non si affronta la struttura che genera diseguaglianza e esclusione.

La cosiddetta mano invisibile del mercato agisce senza freni. Ma non è neutra: seleziona, espelle, concentra potere. Quello che manca è una mano visibile, pubblica e democratica, capace di intervenire in modo intenzionale sulla città.

Una mano che sappia rimettere al centro il diritto all’abitare, il valore dello spazio collettivo, la funzione redistributiva delle istituzioni. Una mano che non gestisca semplicemente la crescita, ma la orienti. In questo senso, il problema non è l’esistenza di rapporti pubblico-privato, ma la loro opacità e la debolezza del pubblico, che rinuncia a programmare, ad agire per perequare, a definire l’interesse collettivo nel rapporto con il mercato. Non è il partenariato in sé a generare distorsioni, ma l’assenza di un indirizzo politico forte e autonomo.

Milano non è condannata a diventare una città-vetrina per investitori e turisti. Può essere una città che include, che distribuisce, che progetta. Ma per farlo, serve coraggio politico, capacità di visione, strumenti pubblici. Le mani pulite non bastano. Bisogna sapere dove stanno andando. E per chi. Milano è avanti, precede. Ma proprio per questo, fermarsi a riflettere può essere utile anche per chi è rimasto indietro.

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