Non è il mercato che fa l’industria

Una politica industriale senza indirizzo pubblico è solo contabilità

Il mercato non fa l’industria. Può farla crescere o crollare, moltiplicare profitti o creare dipendenze, può premiare l’efficienza o la rendita, ma non costruisce da solo una traiettoria collettiva. Dove manca un indirizzo pubblico, non nasce un ecosistema produttivo: nasce un campo di forze che si muovono in ordine sparso, a volte cooperano, più spesso si ostacolano. Per questo oggi non basta parlare di incentivi, semplificazioni, competitività o attrazione di investimenti.

Tutto questo può accompagnare una strategia, ma non la sostituisce. Serve una direzione, e questa direzione non può che essere pubblica. Non nel senso di statalizzare, ma nel senso di costruire, su base democratica, una visione delle finalità industriali del Paese. Quali produzioni vogliamo sviluppare? Quali tecnologie? Quali territori devono essere protagonisti della transizione? Quali rischi possiamo permetterci di correre, e quali no? Nessun attore privato può decidere tutto questo da solo.

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Non è un difetto del mercato: è il suo limite fisiologico. Il mercato massimizza, ma non seleziona secondo criteri di interesse collettivo. È compito della politica colmare questo vuoto. E farlo non con l’ideologia del controllo, ma con l’intelligenza dell’indirizzo.

È questa la vera svolta: riportare al centro l’azione pubblica come motore della trasformazione industriale, non solo come supporto o correttore. Non si tratta di “fare industria pubblica” in senso proprietario, ma di riconoscere che la capacità produttiva è una infrastruttura della sovranità democratica e nazionale.

L’impresa non è un soggetto neutro, e nemmeno lo Stato lo è: è nella loro alleanza, se costruita in modo trasparente, verificabile, orientato a risultati comuni, che può emergere una vera politica industriale del XXI secolo.

Il nome di questa alleanza è paternariato strategico pubblico-privato, ma non può essere ridotto a una formula tecnica. Deve essere un patto esplicito, fondato sulla condivisione degli obiettivi e sulla co-decisione.

Un patto che superi la logica del mercato come sovrano e dello Stato come bancomat, e assuma invece la produzione non solo come un fatto economico, ma anche civile, ambientale, sociale.

Questo rovesciamento è ciò che oggi manca. E non mancano i fondi, le risorse, le competenze: manca la legittimazione politica dell’indirizzo pubblico come elemento costitutivo dello sviluppo.

Abbiamo rinunciato a scegliere, a valutare, a selezionare: abbiamo scambiato la neutralità per efficienza, e ci siamo trovati con un’economia fragile, dipendente, iniqua.

Oggi che la transizione impone scelte radicali, non possiamo più permetterci di lasciare alla spontaneità del mercato la struttura industriale del Paese. Né possiamo affidarci a un’emergenza perenne che giustifica ogni misura.

Serve un salto di qualità. Serve uno Stato che non interviene solo dopo che i problemi esplodono, ma che li previene, li orienta, li trasforma. Serve una capacità pubblica di dire “no” e “sì” con cognizione di causa. Di selezionare i settori strategici. Di vincolare i finanziamenti a risultati. Di chiedere conto delle esternalità.

È questa la posta in gioco. Non con una nostalgia novecentesca, ma con una proposta di industria come bene comune, costruita attraverso alleanze di lungo periodo tra Stato, impresa, territori e lavoro.

Se non è il mercato a fare l’industria, allora tocca alla politica riconquistare il suo spazio: non per sostituirsi agli attori economici, ma per definire insieme a loro la direzione del cambiamento.

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