Nunzio, risarcito dallo Stato per ingiusta detenzione – Intervista

La sua vita di insegnante, gli studi a Siena, il libro “Impunita”, il carcere per sei mesi e sei giorni. Nel 2023 sono stati in 1271 i presunti “carcerati senza ragione”

“Impunita”: un titolo che rapisce quello del libro di Nunzio di Gennaro. Un titolo accompagnato da un’immagine di copertina che riassume in uno sguardo il senso delle sue pagine. Pagine che colpiscono, che lasciano con il fiato sospeso, soprattutto perché raccontano una storia vera, vissuta sulla pelle dello scrittore stesso.

È stata la mia passione per la lettura e la scrittura a farmi conoscere Nunzio, con il quale ho in comune la casa editrice SBS Edizioni e Promozione che ha realizzato, oltre che il suo, anche il mio ultimo libro, Akhet. E poi, parlando, ho scoperto un altro punto in comune: Siena. Sebbene siciliano, infatti, ha vissuto gli anni universitari qui, frequentando la facoltà di Lettere e per lui quel periodo è stato molto di più che una parentesi.

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Qui si è formato come uomo, ha imparato ad affrontare la vita applicando “l’addestramento” – usando proprio una parola di Nunzio – che giorno dopo giorno i suoi professori impiegavano nella loro didattica. Ricorda con grande emozione il prof. Tabucchi, da cui ha imparato ad amare Lisbona, il prof. Nava, di cui ha apprezzato la semplicità, il prof. Greco, il prof. Catoni, il prof. Ascheri.

Ma torniamo a “Impunita”. Pagine in cui Nunzio ha trovato la forza di mettere nero su bianco, seppur ovviamente romanzandolo, il suo personalissimo vissuto. Il vissuto di una persona che, a causa di un errore giudiziario, ha trascorso sei mesi e sei giorni ingiustamente detenuto in carcere. Argomento molto spinoso e doloroso.

Parlare con Nunzio di questo mi ha toccato molto. Ricordo ancora la vicenda di Enzo Tortora, tanti anni fa. Ero una bambina ma la sua storia mi colpì; realizzare che anche la giustizia, che mi appariva perfetta e al di sopra di ogni debolezza umana, potesse sbagliare e stravolgere la vita di una persona, fu qualcosa di forte. Tuttavia, appariva allora, un po’ come ora, fino a quando ho conosciuto Nunzio, un qualcosa di “altro”, un qualcosa da sentire al TG ma non tangibile nella vita quotidiana.

Leggendo “Impunita”, invece, ci si rende conto che è un’evenienza che può entrare nei giorni ordinari di chiunque, di ogni normalissima persona comune. E che, come il prof. Macaluso (è questo il nome che lo scrittore dà al suo alter ego romanzato del libro), molti altri anche in questi ultimi anni, hanno subito l’esperienza del carcere pur non avendo commesso alcun crimine. Tanto poi da essere alla fine, come Nunzio di Gennaro, risarciti dallo Stato italiano.

Facendo delle ricerche ho trovato, infatti, che solo nel 2023 sono sopravvenute 1.271 richieste di riparazione per ingiusta detenzione (fonte: Ministero della Giustizia Dipartimento per gli Affari di Giustizia Direzione Generale degli Affari Interni Misure Cautelari Personali e Riparazione per Ingiusta Detenzione: dati anno 2023 Relazione al Parlamento ex L. 16 aprile 2015, n. 47 Edizione Aprile 2024).

Ora, però, il mio interesse va a Nunzio, all’uomo che era prima e che è diventato dopo, al suo vissuto personale, a come sia riuscito a dare un senso a quei giorni e a riprendere in mano la sua vita poi.

Sono passati diversi anni da quella terribile esperienza che ha fatto da spartiacque tra un prima e un dopo nella tua vita. Chi era Nunzio prima e chi è Nunzio ora?

“Era il primo aprile del 2009 quando fui arrestato. Era un mercoledì e capii subito che non si trattava di un pesce d’aprile. Fino a quel giorno ero un giovane professore di appena 30 anni, pieno di vita. Avevo vissuto a Siena per compiere gli studi in storia della chiesa e dopo l’esperienza toscana avevo cominciato a viaggiare in lungo e largo per il mondo. Prima tappa Vienna, dopo Dublino, Edimburgo, Lisbona, Buenos Aires, di nuovo Lisbona, Perugia, Pisa, Latina e ultima tappa prima dell’arresto a Breguzzo in Trentino. Quel primo aprile 2009 i carabinieri bussarono alla porta del Nunzio di allora e gli mostrarono un documento freddo, lapidario, in cui lo si accusava di un reato tra i più odiosi e di enorme impatto sociale: violenza sessuale. Venni portato, prima di entrare in carcere, in due caserme dei carabinieri, e poi in una fredda cella a Verona. Se ripenso a quei giorni mi sembrano il film di un’altra vita. Un’altra vita in cui fui catapultato tutto d’un tratto, senza neppure rendermene conto in un primo momento. Sono passati tanti anni ormai. Non posso negare che quello che è successo non sia ancora dentro di me come una radice che squarcia il terreno del mio giardino interiore. Ora, però, Nunzio di Gennaro è un uomo felicemente sposato, un insegnante in procinto di partire per lavorare presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale dopo aver superato una difficile selezione. Credo di poter dire che oggi quel giovane professore del 2009, scaraventato in un mondo che non era il suo, finalmente possa ritenersi soddisfatto”.

Un reato davvero spregevole quello di cui fu ingiustamente incriminato Nunzio. Un reato che mina i rapporti, che rende difficile, anche a seguito della dichiarazione di non colpevolezza, instaurare con fiducia ulteriori legami.

Come è cambiato, se è cambiato, il tuo rapporto con le donne e in generale con gli altri umani?

“L’esperienza in carcere da innocente e gli anni ad aspettare i vari gradi di giudizio mi hanno cambiato nel senso che ho sviluppato un forte senso della diffidenza e sono molto più riservato rispetto a prima. Direi una bugia se dicessi che il rapporto con le donne è rimasto lo stesso. Per molti anni dopo quello che era accaduto ho avuto paura di avvicinarmi a chiunque perché non mi fidavo”.

Non riesco neanche ad immaginare cosa si possa provare ad essere accusati di qualcosa che non si è fatto. Di qualcosa di così grave. E tanto meno riesco ad immaginare cosa significhi dover trascorrere sei mesi e sei giorni privati della libertà senza un motivo. Provo a ricostruire nella mia mente gli attimi di Nunzio prima di essere rinchiuso e quelli subito dopo aver riacquistato la libertà.

Qual è la prima immagine che ti torna alla mente della prigione? E, ugualmente, la prima immagine del dopo scarcerazione?

“La prima immagine che mi torna alla mente è la porta in ferro massiccio della cella che sbatteva e il rumore delle grosse chiavi che giravano nella toppa e mi chiudevano. La prima immagine del dopo scarcerazione, invece, è quella di me davanti al carcere, in giacca e cravatta, con un sacco nero della spazzatura datomi dai secondini, dove tenevo tutte le cose accumulate in quei sei mesi e sei giorni di detenzione. Un me di nuovo uomo, in attesa che i miei familiari venissero a prendermi. Un me che provava una grande umiliazione scorgendo gli sguardi delle persone che passavano e mi scrutavano con diffidenza e paura”. 

Quando hai maturato l’idea di scrivere questo libro? E perché? Cosa ha significato per te?

“Il libro non vuole essere una vendetta contro i giudici o contro la persona che mi ha accusato dichiarando il falso. È nato come occasione di riflessione sul fatto che a volte in un Tribunale si pronuncia una sentenza in nome del “populismo” e non del “popolo” italiano. Io sono stato assolto perché il fatto non sussisteva, cioè non si doveva neanche procedere e lo Stato mi ha riconosciuto un indennizzo per l’ingiusta carcerazione. Ho sentito come doveroso lasciare una mia testimonianza dopo le pene sofferte”.

Perché questo titolo? La ragazza che ti ha denunciato è rimasta appunto impunita dopo la tua assoluzione? Hai avuto più sue notizie?

“Il titolo è stato voluto fortemente da Sheyla Bobba, la nostra editrice. Forse più giusto sarebbe stato “Impuniti”. Con questo romanzo volevo provare a dare voce ai tanti che, come me, hanno dovuto soccombere di fronte ad altrettanti impuniti. Nello specifico, della donna che mi ha denunciato, ripeto, dicendo il falso, so solo che deve molti soldi ai suoi avvocati. Del resto, non mi interessa sapere cosa faccia. Vorrei, però, che lei trovasse prima o poi il coraggio di raccontare la verità e il motivo che l’ha portata a mentire”.

Come è stato ritornare alla vita “normale” dopo i sei mesi e sei giorni di ingiusto carcere? Credi che l’assoluzione e il risarcimento dello Stato siano sufficienti a riabilitare l’immagine di chi, come te, ha subito ingiustamente una pena o pensi che, comunque, nell’opinione pubblica resti quel tarlo di dubbio sulla colpevolezza?

“Mentirei se dicessi che è stato facile. La vita è più difficile di prima. Sento che il pregiudizio della gente mi rimarrà tatuato per sempre, nonostante l’assoluzione e il risarcimento. Ci sarà sempre qualcuno che avrà quel dubbio, qualcuno che, in fondo in fondo, non crederà completamente nella mia innocenza. Anzi, direi, nel mio essere stato una vera e propria vittima”.

Dopo quanto hai potuto ricominciare ad insegnare? È stato difficile per te ritornare a fare il professore?

“Sono tornato in una classe dopo quasi dieci anni. Il primo giorno di scuola la dirigente scolastica di quell’Istituto mi disse che in quelle aule non sarei mai stato una persona gradita. Questo per farti capire come è stato il mio reinserimento nella vita normale! Poi, per fortuna, ho trovato altri dirigenti con un’umanità diversa”.

Cosa ti ha insegnato questa esperienza? Riesci a trovare qualcosa di positivo anche in questo dramma? Qualcosa che ti porti come bagaglio di vita?

“La fede mi ha aiutato tantissimo e soprattutto la figura di Santa Teresa d’Avila. Sono molto devoto a questa santa; è un modello di donna che mi rassicura, sia per la sua spiccata intelligenza e caparbietà – ha fondato nel 1500 più di 18 monasteri, insomma un’imprenditrice di tutto rispetto! -, sia per la sua concretezza. Chissà, forse se non fossi mai incappato in questa triste vicenda non avrei mai avuto lo stimolo per cercare figure consolatrici a cui aggrapparmi”.

Credi che il sistema giudiziario del nostro Stato presenti degli aspetti che potrebbero essere migliorati in qualche modo per evitare errori come nel tuo caso o reputi che si sia trattato solo di errore umano? Continui ad avere fiducia nella giustizia?

“A questa domanda non so dare una risposta precisa. Faccio solo una breve riflessione statistica senza però commentarla; lascio ai lettori le loro personalissime considerazioni. Ho subito cinque processi, due persi e tre vinti. In tutti e cinque i processi, però, i Pm hanno chiesto la condanna o il rigetto della richiesta per l’ingiusta detenzione”.

So che di recente sei stato a Roma, insieme a Irene Testa, Gaia Tortora e il Partito Radicale per depositare la proposta di legge Zuncheddu, dedicata al sostegno delle vittime di errori giudiziari e ingiusta detenzione. Puoi dirci qualcosa di più?

“Si tratta di un bellissimo progetto che si avvicina ad un mio motto personale “uniti per una giustizia più umana”. È una proposta di legge di iniziativa popolare per risarcire chi è stato ingiustamente condannato e poi assolto a seguito di processo di revisione o per chi è stato vittima di ingiusta detenzione. Dopo l’assoluzione o la scarcerazione si resta senza alcun sostegno da parte dello Stato. Beniamino Zuncheddu, da cui prende il nome, dopo quasi 33 anni di carcere senza aver commesso reati, non ha avuto la possibilità di lavorare. La proposta nasce proprio dal suo caso ed è stata presentata in Cassazione il 10 gennaio scorso. Ora si avvia l’iter di raccolta delle firme. Si chiede un assegno mensile fino alla sentenza di risarcimento del danno, per la quale ci vogliono anni. Un modo per garantire un sostentamento a persone che si vedono ingiustamente sottratta la loro vita ed anche un qualsiasi lavoro per vivere”.

Una chiacchierata davvero interessante quella con Nunzio di Gennaro. Una chiacchierata che è andata ben oltre le pagine del suo romanzo. Che mi ha portato a riflettere su tanti aspetti. E soprattutto che mi ha fatto capire ancora una volta che, come diceva un cantautore in una sua canzone di ormai tanti anni fa, “Gli altri siamo noi”. Perché quello che è successo a Nunzio, come purtroppo a tanti altri, è qualcosa che può succedere a tutti, non una notizia da sentire alla televisione. E, dunque, in qualche modo, riguarda tutti.

Finisco la nostra conversazione nel modo che preferisco, con la solita domanda che ritengo essenziale per chiudere ogni argomento, per dare un senso compiuto a tutto quello che è stato detto.

Se dovessi riassumere in una parola “Impunita”, cosa diresti?

“Croccante”.

Ed allora, auguro a chiunque abbia in qualche modo provato curiosità e desiderio di leggere la storia del Prof. Macaluso, protagonista del romanzo, di divorare tutto d’un fiato il croccante delle pagine di “Impunita”. Un croccante dal gusto agrodolce. Un croccante che vale la pena assaporare fino in fondo.

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