Parlamento sotto tutela: decreti con fiducia e presa di potere dell’esecutivo

Cento decreti-legge in due anni e mezzo, una raffica di voti di fiducia: il governo Meloni rafforza la propria centralità, ma a che prezzo per la democrazia parlamentare?

Cento decreti-legge in due anni e mezzo. Basta questo numero, se preso sul serio, per raccontare la direzione intrapresa dal governo Meloni sul piano istituzionale. Una scelta politica chiara: utilizzare il decreto come strumento ordinario di governo, e non più come misura eccezionale per rispondere a emergenze impreviste. Il dato, verificabile nei resoconti ufficiali del Parlamento, ci parla di una frequenza di circa tre o quattro decreti al mese, con punte simili solo in periodi di crisi come la pandemia o l’inizio della guerra in Ucraina. Ma stavolta non c’è né pandemia né conflitto alle porte. C’è invece una maggioranza stabile, fortissima nei numeri e compatta nella disciplina. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, si è scelto di consolidare il primato dell’esecutivo riducendo al minimo le fasi ordinarie del confronto parlamentare.

A questa bulimia di decreti si affianca un altro segnale politico forte: il ricorso sistematico alla questione di fiducia. In quasi due terzi dei decreti convertiti in legge, il governo ha deciso di porre la fiducia almeno in una delle due Camere, spesso in entrambe. Si tratta di un vero e proprio “blocco del dibattito”, che impedisce modifiche e chiude in partenza qualsiasi discussione parlamentare. È un meccanismo legittimo sul piano costituzionale, certo, ma abusato diventa un problema politico e democratico. Perché se il Parlamento non può discutere, emendare, intervenire con la propria autonomia, allora il rischio non è solo quello di una compressione formale dei poteri legislativi, ma di uno svuotamento sostanziale della rappresentanza.

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Tutto questo accade con una regolarità quasi chirurgica. I decreti vengono scritti a Palazzo Chigi, approvati dal Consiglio dei ministri, trasmessi alla Camera o al Senato e poi convertiti senza modifiche. In molti casi, il passaggio in una delle due Camere diventa puramente simbolico: un voto rapido, con tempi contingentati, senza margine reale di intervento. Si parla sempre più spesso di “monocameralismo alternato”, un’espressione tecnica per indicare che le due Camere non lavorano più insieme ma si limitano ad approvare a turno quanto già deciso altrove. E non è raro che i testi decaduti vengano riesumati all’interno di altri decreti, in una giostra normativa che riduce la trasparenza e indebolisce il controllo politico.

Tutto questo non è un’eccezione, ma una prassi consolidata. E la cosa più sorprendente è che avviene in un contesto in cui il governo gode di un ampio consenso parlamentare. Non siamo di fronte a un esecutivo fragile, costretto a forzare i tempi per paura di perdere i voti. Al contrario, Giorgia Meloni dispone di numeri solidi alla Camera e al Senato, eppure preferisce chiudere in partenza qualsiasi margine di negoziazione. Una scelta che tradisce una visione del potere accentrata, verticistica, impermeabile al confronto. La premier governa come se avesse ricevuto un’investitura plebiscitaria, dimenticando che il Parlamento resta, per Costituzione, il luogo della sovranità popolare.

Sorge allora una domanda inevitabile: se l’eccezione diventa la regola, cosa resta della democrazia parlamentare? È vero che ogni governo cerca di accelerare il proprio programma, ma qui si va oltre. Siamo di fronte a un cambiamento strutturale del rapporto tra esecutivo e legislativo. Un cambiamento che rischia di trasformare il Parlamento in un organo notarile, chiamato a ratificare decisioni già prese altrove. E il tutto avviene in un clima di sostanziale assuefazione, con l’opinione pubblica poco informata e i media raramente inclini ad approfondire la questione.

Non è solo una questione tecnica. In gioco c’è l’equilibrio tra i poteri dello Stato, la qualità del confronto democratico, la capacità delle istituzioni di rappresentare davvero i cittadini. L’uso politico della fiducia e dei decreti-legge può sembrare efficace nell’immediato, ma a lungo termine rischia di minare la legittimità stessa delle decisioni prese. Un governo forte, se davvero lo è, non dovrebbe temere il confronto parlamentare. Dovrebbe affrontarlo, guidarlo, ma mai aggirarlo.

In questo quadro, il Parlamento italiano appare oggi più debole che mai. Non esautorato formalmente, ma marginalizzato di fatto. E la domanda che dovremmo porci non è solo cosa stia facendo il governo, ma cosa stiano facendo i parlamentari, di maggioranza e opposizione, per difendere il ruolo che la Costituzione assegna loro. Perché il rischio più grande non è che l’esecutivo si rafforzi. È che il Parlamento smetta di esistere come spazio vivo del confronto democratico, e diventi semplicemente lo scenario vuoto di un potere che si esercita altrove.

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