La Repubblica, i partiti e il futuro che manca

La Costituzione riconosce il ruolo dei partiti, ma la politica ha smarrito il senso del progetto collettivo

La Repubblica Italiana si fonda sul lavoro e sulla sovranità popolare. Lo dice l’articolo 1 della Costituzione. Ma questa sovranità non si esercita in astratto: ha bisogno di strumenti, di luoghi, di parole che la rendano viva. I partiti, in teoria, sono questo: lo spazio in cui la cittadinanza si organizza, si forma, partecipa e si proietta nella vita pubblica. È la promessa dell’articolo 49 della nostra Carta. Una promessa, però, oggi tradita.

Non è una novità. Da tempo i partiti hanno smesso di essere scuole di pensiero, corpi intermedi, laboratori di democrazia. Sono diventati comitati elettorali, piattaforme personali, contenitori che si svuotano e si riempiono con la velocità dei talk show. Ma il punto non è solo morale o organizzativo. Il punto è politico: la crisi dei partiti riflette una crisi più ampia della politica stessa.

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Da un lato, è cambiato (e spesso si è ridotto) il modo in cui si finanzia la politica. Il finanziamento pubblico diretto ai partiti è stato quasi del tutto abolito. Ma la politica costa ancora — eccome. Sopravvive il 2×1000, su base volontaria, che ogni cittadino può destinare a un partito iscritto in apposito registro. Poi ci sono i finanziamenti ai gruppi parlamentari, che formalmente servono a sostenere l’attività legislativa, ma che in molti casi permettono ai partiti di restare in piedi. Ci sono le fondazioni, le donazioni e i contributi privati. Tutto lecito, ma spesso opaco. Manca una legge organica che disciplini tutto con chiarezza, vincoli e trasparenza. E nel vuoto normativo si insinua la diffidenza.

Dall’altro lato, anche le regole della rappresentanza sono cambiate, e non in meglio. Le leggi elettorali degli ultimi vent’anni — da quella di Calderoli in poi — hanno privilegiato la governabilità sulla rappresentatività. Liste bloccate, premi di maggioranza, soglie di sbarramento: l’elettore non sceglie più il candidato, i territori contano sempre meno, le decisioni si prendono altrove. Il risultato è uno scollamento progressivo tra popolo e istituzioni.

In questo vuoto si insinuano altre reazioni: il qualunquismo (“sono tutti uguali”), l’estremismo (“buttiamo giù tutto”), oppure il civismo, che a volte si traduce in impegno genuino ma spesso rimane frammentato, locale, estemporaneo. Il civismo può essere una risorsa solo se diventa politica vera: cioè se riesce a collegarsi a progetti, istituzioni, responsabilità. Senza questo passaggio, anche il civismo rischia di diventare una forma di antipolitica.

Eppure, la Repubblica — quella vera, quella fatta di persone e strutture — è un sistema complesso. È fatta di Comuni, Province, Regioni, Stato, Europa. Ogni livello ha funzioni e competenze, ma spesso lavora in modo scoordinato. I Comuni sono sottofinanziati, le Regioni litigano su tutto, lo Stato centrale oscilla tra centralismo e disimpegno. L’Europa è spesso percepita come distante, imposta, poco compresa. Il cittadino, nel frattempo, si ritrova spaesato: non sa più a chi rivolgersi, a chi dare fiducia, dove trovare voce.

La verità è che la politica ha smesso di fare ciò che le spetterebbe per natura: governare la complessità. Il mondo è interconnesso, stratificato, veloce. Le questioni sono tutte intrecciate: ambiente, lavoro, giustizia sociale, istruzione, sanità, digitale, sicurezza. Serve capacità di analisi, profondità di sguardo, coraggio di decidere. Ma la politica, ormai, vive inchiodata al presente continuo del consenso.

E qui arriviamo al nodo più grave. La politica, oggi, non guarda più al futuro. O meglio: non distingue più tra oggi e domani. Insegue ciò che funziona nei sondaggi, ciò che mobilita voti nell’immediato, ciò che “fa notizia”. Ma molte scelte che servirebbero al Paese — sulla transizione ecologica, sulla scuola, sulle disuguaglianze, sul lavoro che cambia — hanno bisogno di tempo, di visione, di sguardo lungo. Il coraggio di dire ai cittadini non ciò che vogliono sentirsi dire, ma ciò che è giusto fare. È questo il vero esercizio democratico.

La Costituzione ci dà ancora una bussola. Ma la bussola da sola non basta se nessuno sa più leggere la mappa. Serve una politica che torni ad avere orizzonte, strumenti, spessore. Una politica che non viva solo di oggi, ma che si prenda cura di domani. E allora sì, la Repubblica tornerà a essere quel patto vivo tra cittadini, istituzioni e territorio di cui abbiamo un disperato bisogno.

In questo contesto di crisi della rappresentanza e di smarrimento del futuro, si fa strada una preoccupazione crescente: quella di una possibile deriva autoritaria. La Commissione Europea, nel suo rapporto annuale sullo Stato di diritto, ha espresso allarme per l’Italia, evidenziando l’uso eccessivo di decreti-legge, la limitazione dello spazio civico e l’indebolimento dei contrappesi istituzionali, come il ruolo del Presidente della Repubblica e del Parlamento .

L’economista premio Nobel Joseph Stiglitz ha parlato di un “fascismo a lento rilascio”, sottolineando come la democrazia possa erodersi gradualmente, senza scossoni apparenti, ma attraverso una serie di piccoli passi che, nel tempo, possono portare a un regime autoritario .

Anche in Italia, segnali preoccupanti non mancano: dalla repressione delle manifestazioni studentesche e sociali, alle politiche restrittive sull’immigrazione e sulla sicurezza, fino alla proposta di riforme costituzionali che mirano a concentrare il potere esecutivo.

Tuttavia, i dati mostrano che la maggioranza degli italiani, pur sfiduciata e stanca della politica, continua a preferire una democrazia imperfetta a un regime autoritario. Secondo un sondaggio condotto da Ipsos e Polidemos, solo il 17% degli intervistati sceglierebbe una “dittatura virtuosa” rispetto a una democrazia con problemi.

Questo indica che, nonostante tutto, esiste ancora una consapevolezza diffusa dell’importanza delle istituzioni democratiche e della necessità di difenderle.

La democrazia non è un dato acquisito, ma un processo continuo che richiede impegno, partecipazione e vigilanza. In un’epoca in cui la politica sembra aver perso la capacità di progettare il futuro e di affrontare la complessità, è fondamentale riscoprire il valore della Costituzione, il ruolo dei partiti come strumenti di partecipazione e formazione, e la centralità delle istituzioni come garanti dei diritti e delle libertà.

Solo così potremo evitare che la crisi della politica si trasformi in una crisi della democrazia stessa.

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