Patto spezzato e da ricucire: ecco perché il 25 aprile ci riguarda ancora

Un’eredità da riscoprire: perché la Liberazione non è solo memoria, ma fondamento della nostra cittadinanza democratica

C’è un paradosso nel modo in cui oggi ci avviciniamo al 25 aprile. Da un lato, si moltiplicano gli inviti a “difendere la memoria”, come se bastasse evocare parole rituali per tenere viva una storia. Dall’altro, proprio quella memoria si fa ogni anno più flebile, lontana, opaca. È il destino di tutte le ricorrenze civili, direbbe qualcuno, soprattutto quando i testimoni diretti si assottigliano e la cronaca sembra avere più presa della storia. Ma forse c’è qualcosa di più profondo, di più scomodo, nel rapporto che l’Italia ha con la sua data fondativa. Perché il 25 aprile non è solo la fine della guerra, non è solo la caduta del fascismo, non è nemmeno solo la Liberazione. È l’inizio di un secondo Risorgimento. Ed è qui, forse, che ci siamo smarriti.

L’Italia del 1945, stremata, divisa, occupata, non si è semplicemente rialzata dalle macerie: ha scelto un’altra strada, ha reciso il legame con la monarchia, con il fascismo, ha riscritto da zero il proprio patto politico e morale.

- Advertisement -

Questo è il cuore della questione: la Resistenza, con tutte le sue contraddizioni, è stata la premessa della Costituzione. Senza quella scelta di campo – fatta da uomini e donne di ogni fede, estrazione e provenienza – non ci sarebbe stata la Repubblica. E senza Repubblica, la nostra idea di cittadinanza, di diritti, di sovranità popolare, sarebbe ancora impigliata nelle nebbie di uno Stato autoritario e proprietario.

Oggi, però, tendiamo a dimenticare questa saldatura. Forse perché è più comodo pensare che la democrazia sia venuta da sé, come un dono della storia o una concessione degli Alleati. O forse perché fa paura riconoscere che quel passaggio cruciale – la rottura, la ribellione, la lotta – implica una responsabilità collettiva. E che quella responsabilità, in parte, ci riguarda ancora.

C’è chi dice che il 25 aprile sia stato “divisivo”. È vero. Ma ogni fondazione lo è. Anche il primo Risorgimento fu lacerante, incompleto, contestato. Eppure nessuno metterebbe in dubbio che l’Unità d’Italia rappresenti un punto fermo della nostra identità nazionale. Perché allora ci riesce così difficile riconoscere nel secondo Risorgimento – quello che ha portato alla Repubblica – lo stesso valore condiviso?

Una parte della risposta sta nella tentazione, di usare la Resistenza come clava ideologica. Di ridurla a una bandiera di parte. Persino una rivoluzione tradita. Ma c’è anche, e in qualche modo oggi va per la maggiore, l’errore speculare: quello di cancellarla, di renderla un dettaglio, un fastidio, una favola raccontata male.

In tutti i casi, si tradisce il senso profondo di quella stagione. Che fu plurale, certo, ma non neutra. Che fu conflitto, ma anche progetto. Che fu violenza, ma finalizzata a un’idea di libertà e giustizia. Che fu, in definitiva, un passaggio obbligato per diventare finalmente cittadini, non più sudditi.

Ripensare il 25 aprile significa allora riprendere in mano quel patto. Chiederci se la Repubblica che viviamo oggi rispecchia ancora i principi di allora. Se la Costituzione – scritta da ex partigiani, ex monarchici, ex detenuti politici, ex soldati – è ancora il nostro orizzonte comune. E se abbiamo la forza di raccontare quella storia non come una liturgia, ma come una sfida: aperta, difficile, ma necessaria.

Per farlo, non servono le retoriche. Servono parole semplici e oneste. Quelle, per esempio, di Piero Calamandrei, che parlava ai giovani dicendo: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero: perché lì è nata la nostra Costituzione”.

Oggi quel pellegrinaggio non è solo fisico. È anche morale, civile, culturale. È una domanda: siamo ancora all’altezza di quella nascita? Sappiamo ancora riconoscerne la forza e la fragilità? Se vogliamo che il 25 aprile non diventi davvero archeologia, dobbiamo celebrarlo non come un anniversario morto. Viverlo come un’inquietudine viva. Come un appuntamento con la nostra coscienza pubblica.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Exit mobile version