“Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo, l’Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba”, si esprimeva così il giudice Giovanni Falcone, magistrato garantista che ha sempre rispettato i diritti di tutti gli imputati, inclusi quelli per mafia. Egli “voleva la separazione delle carriere tra Pm e giudici e si sarebbe opposto anche oggi all’abuso della carcerazione preventiva e a un Csm in balia delle correnti” (cit. Claudio Martelli, Ministro della Giustizia 1991-1993).
Nella Retorica, Aristotele concepisce equità (epieíkeia) come la «forma di giustizia che va al di là della legge scritta».; si può dire che l’equità è il punto dove si può trovare una proporzione in relazione al bene comune e a quello individuale tra i soggetti coinvolti nell’azione. Essa assomiglia all’uguaglianza e, soprattutto, alla giustizia (dikaiosyne); in questo senso, Aristotele attribuisce all’equità il compito di far preponderare il giusto assoluto nei casi in cui il giusto legale si dimostri iniquo e incapace di permettere la realizzazione della giustizia politica. L’equità porta alla possibilità di correggere eventuali equivoci commessi dal legislatore, oppure di colmare delle lacune che la sua attività legislativa non ha potuto prevedere.
Aristotele espone con chiarezza il funzionamento del rapporto tra giusto legale, giusto naturale assoluto ed equità, quando afferma che: “l’equo è giusto, ed è migliore di un certo tipo di giusto, non del giusto in assoluto, ma di quell’errore che ha come causa la formulazione assoluta”. La natura dell’equo è quindi quella di essere correzione della legge, nella misura in cui essa viene meno a causa della sua formulazione universale. Questa è la causa anche del fatto che non tutto avviene in base a una legge e che, quindi, rispetto a certi casi non sia è possibile stabilire una legge ma ci sia bisogno di un decreto particolare.
Queste riflessioni teoretiche hanno costituito un punto di riferimento essenziale per tutte le dottrine successive della storia del diritto e della scienza giuridica, a cominciare dal diritto romano, anche se talvolta la speculazione aristotelica non è stata messa in risalto quanto avrebbe meritato di essere; ma equità e giustizia, interagendo sinergicamente, corrispondono alla giustizia giusta, quella per la quale in Italia si sono battuti Pannella, Sciascia ed Enzo Tortora, quella che richiede riforme di grande respiro e valore: responsabilità civile del magistrato, separazione delle carriere, abolizione dell’obbligatorietà penale, robusta delegificazione; sono le cose che auspicava, tra gli altri, proprio Giovanni Falcone, che non a caso, prima di essere ucciso da Cosa Nostra, ha avuto come implacabili avversari tanti suoi colleghi.
Colmare il nostro gap culturale in fatto di giustizia giusta e togliere il velo all’ ipocrisia e al silenzio dei media e della maggioranza delle forze politiche assume, quindi, le vesti di un dovere morale ed etico, in considerazione, soprattutto, dei quesiti abrogativi proposti dal referendum giustizia del 12 giugno p.v.: analizzando l’argomento delle carcerazione preventiva non può non tornarci in mente quanto accaduto a Enzo Tortora, così come quando parliamo della separazione delle carriere tra giudici e PM non possiamo dimenticarci la fermezza con cui Giovanni Falcone, asseverando che “il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come invece oggi è, una specie di paragiudice. Chi, come me, richiede che (giudice e P.M.) siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del Magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il P.M. sotto il controllo dell’Esecutivo”, si impegnava in una battaglia che per dignità, etica e onestà intellettuale deve diventare la nostra.
Il 12 giugno gli elettori italiani avranno l’opportunità di onorare l’impegno di chi si è battuto fino alla propria fine, votando 5 SI ai quesiti referendari e rendere così più meritocratico, efficiente e trasparente il sistema Giustizia in Italia. Occorre ricordare che il referendum abrogativo è il principale istituto di democrazia diretta previsto dall’art. 75 della Costituzione e prevede l’abrogazione, totale o parziale, delle disposizioni di una legge o di un atto avente forza di legge oggetto di quesito, che viene sottoposto all’elettore con formula abrogativa. È indetto se ne fanno richiesta cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali; affinché il referendum sia valido deve essere raggiunto il quorum di validità: deve cioè partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto. Dopodiché, perché la norma oggetto del referendum stesso sia abrogata, la maggioranza dei voti validamente espressi deve essere SI.
Il referendum abrogativo in materia di giustizia a cui siamo chiamati a votare il prossimo 12 giugno verte sui seguenti 5 quesiti ammessi dalla Corte costituzionale:
1.Sistema di elezione del Csm: il quesito abrogativo riguarda le norme che regolano l’elezione dei cosiddetti membri togati del Consiglio superiore della magistratura, cioè quelli che sono a loro volta magistrati, modificando in particolare le modalità di presentazione delle candidature; se sarà approvato, i giudici che intendono candidarsi al Csm potranno presentare liberamente la propria candidatura senza aderire a liste, senza il supporto, quindi di altri magistrati e senza, soprattutto, l’appoggio delle “correnti” politiche interne al Csm (alcune sono più centriste, altre più vicine alla sinistra oppure alla destra): in tal modo sarebbe più difficile per una parte della magistratura costruire nuove forme di correntismo;
2. Valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari: in caso di abrogazione delle norme oggetto del quesito, avvocati e professori universitari facenti parte dei Csm distrettuali potranno esprimere, al pari degli altri componenti, la loro valutazione in ordine alla professionalità dei magistrati che prestano servizio nel distretto, quindi l’obiettivo del referendum è smantellare il corporativismo giudiziario ed evitare l’autoreferenzialità della magistratura, in modo tale che non siano solo i giudici a valutare i giudici, ma anche altri importanti protagonisti del settore, come appunto professori e soprattutto avvocati;
3. Separazione delle carriere fra Giudici e PM: il quesito referendario è molto lungo e riguarda l’abrogazione delle numerose disposizioni che fondano o danno la possibilità ai magistrati di passare dalla funzione requirente alla funzione giudicante, o viceversa; la vittoria del SI abrogherebbe ogni passaggio di funzione giurisdizionale (da magistratura requirente a giudicante e viceversa) per evitare l’uso strumentale delle richieste e il corto circuito fra indagini e media cosicché una volta intrapresa una delle due carriere – requirente o giudicante – il magistrato non possa più optare per l’altra: ciò garantirebbe la piena realizzazione del principio del giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione, secondo cui ogni processo si deve svolgere “davanti a giudice terzo e imparziale”;
4. Limiti agli abusi della custodia cautelare: la custodia cautelare è la custodia preventiva (cioè una limitazione della libertà) a cui un imputato può essere sottoposto prima della sentenza: l’articolo 274 del codice di procedura penale elenca i casi che giustificano l’applicazione delle misure cautelari: pericolo di fuga, inquinamento delle prove, o quando sussiste il concreto e attuale pericolo che la persona «commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede», quando, cioè, c’è il pericolo di reiterazione dello stesso delitto; se i cittadini decidessero di abrogare la norma oggetto del quesito referendario, le misure cautelari verrebbero applicate solo per “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”; dunque, non è vero che assassini, rapinatori o stupratori non finirebbero più in galera: per questi reati, e per quelli di mafia o di sovversione dell’ordine democratico, la custodia cautelare in carcere sarebbe ancora applicabile, mentre il quesito mira a limitare in modo decisivo il ricorso alle misure cautelari, in primis la custodia cautelare in carcere, che resterebbe in vigore solo per quei reati particolarmente gravi che giustificano un’attenzione alta da parte dello Stato;
5. Abrogazione della legge Severino: dopo l’abrogazione dell’immunità parlamentare avvenuta nell’ottobre 1993 (per cui da allora le Procure possono indagare i parlamentari senza l’autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza), quello della Legge Severino è lo strumento più potente che la politica abbia consegnato alla magistratura per farsi incastrare; il quesito mira ad abrogare la Legge Severino al fine di scongiurare i “processi politici”, in modo tale da evitare che siano i giudici a decidere – al posto del popolo – chi può essere eletto e chi no, attraverso la cancellazione dell’automatismo della sospensione in caso di condanna non definitiva e tornando quindi a una valutazione caso per caso, come succedeva fino al 2012, e cioè prima dell’entrata in vigore del decreto Severino: si evidenzia, inoltre come i meccanismi del decreto Severino e in particolare l’automaticità della sospensione in caso di condanna non definitiva siano non solo inefficaci, ma anche dannosi per le persone coinvolte: dicono, nello specifico, che la decadenza automatica di sindaci e amministratori locali condannati ha creato finora «vuoti di potere» e ha portato alla sospensione temporanea dai pubblici uffici di innocenti poi reintegrati e mai risarciti, né dal punto di vista professionale né da quello morale.
Asseverare con forza che gli “uomini di giustizia, nel senso più nobile del termine, non sono uomini di potere, votati al rafforzamento delle proprie posizioni istituzionali e sostanzialmente disinteressati alle vicende giudiziarie, che dovrebbero dominare i loro pensieri, prima ancora che le loro azioni professionali” (cit. Leonardo Sciascia) significa cercare di riportare i magistrati e, soprattutto, gli alti magistrati, all’interno della società civile, colmando quella profonda frattura che li oppone al bene comune, all’equità e alla giustizia; significa evidenziare che il solo vero principio per l’umanità è la giustizia e la giustizia significa protezione, gentilezza, verità, rispetto della persona, sobrietà, cura; la giustizia combatte la menzogna, è contro la prevaricazione e la violenza, la giustizia non è giustizialismo, si edifica con la generosità; non si costruisce con la pretesa né garantendo alcuni diritti e negandone altri.
Claudia Cardone
(Claudia Cardone, nella foto di copertina, è Esperto OCSE politiche di innovazione, Tesserata di Italia Viva e Socio fondatore di Siena Riformista)