Quando l’uomo chiamato “Terra”, Dharan, si incontra con Arman, l’inquietante personaggio “dai Mille Segreti”
Seconda parte del racconto di una “Vera Avventura nel Regno di Lo”. Nella precedente, una settimana fa, lasciammo il protagonista, Dharan, finalmente giunto a Kathmandu, all’inizio della sua ricerca del “luogo dove il vento racconta storie dimenticate”.
२ Dui – (due) L’incontro con Arman
Era ormai sera e non me la sentii di entrare in città. Proprio sul margine dell’abitato incrociai un chiassoso bhatti (12), una via di mezzo tra un caravanserraglio e una locanda, rifugio di mercanti e viaggiatori, con uno spazio comune per dormire e un’area separata per gli animali.
Adoravo questi luoghi affollati. La locanda era un brulicare di voci, lingue e volti. Il fuoco al centro del salone illuminava uomini con turbanti logori, donne con ceste di spezie e un bambino che correva tra i tavoli. Il proprietario mi indicò un angolo con una coperta di lana grezza.
«Sei fortunato,» disse «stasera è l’ultimo posto libero».
Il mattino giunse presto. Gli animali dovevano essere accuditi e le carovane erano già pronte a ripartire. In una nebbiosa alba, dove il sole stentava a farsi strada, iniziai a muovermi per i labirintici vicoli di Kathmandu. In alcuni punti erano così stretti che potevo toccare con le mani entrambi i lati della via.
Le case avevano tutte almeno tre piani, un fronte stretto, quasi compresso dal palazzo vicino. Al piano terra c’era una bottega o una stalla. Finestre intagliate finemente si affacciavano sulla via come pudici merletti, proteggendo la vita delle famiglie. Donne intente a battere il riso, mercanti che urlavano i prezzi delle loro spezie, e monaci che attraversavano silenziosi la strada con il loro mala (17) tra le dita riempivano il panorama.
Ogni angolo sembrava voler raccontare una storia. Guardavo l’interno delle case: quasi tutte avevano un cortile, un pozzo, un angolo di quiete che sfuggiva al vociare dei mercati.
Per giungere al Kasthamandap, dovevo attraversare prima il mercato di Asan Tole. I colori delle persone ti facevano socchiudere gli occhi per quanto erano accesi. Sacchi di spezie dai toni brillanti erano appoggiati ai muri, e una miscela di odori indecifrabili ti giungeva al naso.
Nel successivo mercato di Indra Chowk collane di fiori arancioni e fili di seta scintillante occupavano ogni angolo. Banchi stracolmi di curry, tè e amuleti riempivano la via. In un angolo, quasi nascosto alla vista, un vecchio lucidava gioielli di rame. I suoi movimenti lenti e precisi sembravano seguire un antico rituale.
Ogni vicolo sembrava volermi proporre una storia, ma finalmente il Kasthamandap apparve davanti a me. Fu come se il caos della città si fosse fermato, trattenendo il respiro.
Il custode del tempio era seduto su uno sgabello di legno, avvolto in un dhoti (7) bianco e con un rosario tra le mani. Dissi solo una parola: «Arman?»
«Oggi non è qui – rispose diretto -, è fuori con una carovana. Riprova tra qualche giorno… una settimana, forse».
Fortunatamente, il custode parlava un po’ del mio hindi, anche se con una traballante pronuncia. Riuscii comunque a capire la risposta. Hindi e nepali hanno radici comuni. Alcune parole come pani (13), namaste e ghar (14) sono simili in entrambe le lingue ed entrambe usano la scrittura Devanagari. Tuttavia, le parole, pur con lo stesso alfabeto, sono scritte in maniera diversa e pronunciate in modi differenti.
Senza l’aiuto di Arman, non sarei andato lontano.
I preparativi
Cercai un alloggio per più giorni presso il tempio di Swayambhunath. Feci una piccola donazione e mi resi disponibile a lavorare. Dato il grande afflusso di pellegrini, i servizi di pulizia del tempio e l’aiuto in cucina erano molto richiesti. Ero diventato molto abile dopo anni di seva (10) presso il tempio induista di Kashi Vishwanath.
Sapevo preparare molti dei più semplici piatti vegetariani nel modo corretto. Nei templi induisti e buddhisti la preparazione del cibo è un atto sacro. Gli ingredienti devono essere freschi e puri, spesso preparati come offerte religiose. Sfornavo chapati (15) e preparavo Dal bhat (16) come se non ci fosse un domani.
Dopo i primi giorni, alla fine del mio servizio giornaliero, ripresi in mano le mie amate matite. Adoravo disegnare la vita di strada e gli splendidi monumenti. Passavo ore a riprodurre bassorilievi e incisioni nelle colonne. Con diligenza copiavo le scritte in Devanagari, di cui conoscevo i caratteri ma, per la maggior parte, le parole composte sfuggivano alla mia comprensione.
Solo alcune mi erano familiari: Om Namah Shivaya (ॐ नमः शिवाय), “Saluto il Signore Shiva,” o Dharma Rakshati Rakshitah (धर्मो रक्षति रक्षितः), “Il Dharma protegge chi lo protegge.”
L’attesa di Arman
Ero in frenetica attesa. Ormai erano passati dieci giorni e di Arman non c’era traccia. Stazionavo al tempio di Kasthamandap tutte le ore che il servizio in cucina mi concedeva.
Una sera, il custode del tempio, vedendomi arrivare, si alzò in piedi e sottovoce mi disse: «Arman è arrivato. Là dietro quella porta troverai l’uomo dai mille segreti».
Un ragazzo magro, con una tunica troppo grande per lui, stazionava davanti alla porta. Appena mi avvicinai, con tono fermo, mi chiese: «Cosa stai cercando?» Quando nominai Arman, spalancò gli occhi. «Oh, lui? È un grande viaggiatore. A volte porta storie incredibili da terre lontane. Aspetta qui, magari ti riceve». Sparì in un angolo buio del tempio, lasciandomi con il dubbio se sarebbe tornato o meno.
Dalla penombra apparve un uomo robusto con un pugnale alla cintura. Mi squadrò da capo a piedi. Teneva la mano sull’elsa e, come mi vide, con voce tagliente sibilò: «Se cerchi Arman, devi essere disperato o molto coraggioso». Nel frattempo, con l’altra mano si grattava la barba incolta. «È un uomo onesto… quando gli conviene. Ma ti avverto: se vuoi parlargli, non lamentarti poi delle conseguenze».
Aveva un sorriso strano sul volto. Per un istante rimasi interdetto, poi, come un soffio, dissi che mi mandava Guruji. Aggrottò la fronte, sembrava non capire. Con esitazione aggiunsi: «Anantashiva».
Per noi discepoli, il nostro pandit era semplicemente Guruji, ma il suo vero nome, Anantashiva, non veniva mai pronunciato se non durante le cerimonie. Era troppo grande, troppo sacro per essere usato nelle conversazioni quotidiane. Tra i discepoli si mormorava che ogni volta che il suo nome veniva detto senza rispetto, qualcosa nella persona si spegneva.
Solo allora l’uomo fece un passo avanti e, chinando la testa, disse: «Sono io Arman. In cosa ti posso servire? Entra», poi aggiunse «recupero le mie cose e andiamo in un posto tranquillo dove possiamo parlare». La frase mi suonò strana. Cosa vuoi di più tranquillo di un tempio? mi chiesi.
La casa di Arman
Arman mi condusse in un intricato dedalo di vie. Aprì una porta di legno massiccio e mi invitò a entrare. La stanza era semplice, ma ogni oggetto sembrava portare una storia: una statuetta di Shiva sopra un altarino, mappe arrotolate accanto a un vecchio tamburo tibetano. C’erano pochi mobili: un basso tavolino di legno, stuoie sul pavimento e cuscini.
«Non è molto,» disse, gettando la chuba (3) in un angolo, «ma è casa mia.»
Per oltre due ore parlammo del mio progetto, gli avevo consegnato una lettera di Guruji e lui si era messo completamente al mio servizio. Mentre mi illustrava il cammino io avevo poco da dire, se non fare “oooh” con la bocca per tutte le storie che mi stava raccontando.
Volevamo viaggiare leggeri. Con Arman non avrei dovuto aggregarmi a carovane per trovare sicurezza e protezione lungo il percorso.
Preparativi per il viaggio
Dopo un po’ di riflessione, ci accordammo per l’acquisto di un mulo. Arman, guardando i miei vestiti, mi domandò se ne avevo di adatti per il viaggio. Con un po’ di vergogna gli dissi che avevo solo un bhoto (8) di ricambio e poco più.
Allora fece lui la lista delle cose personali che dovevo acquistare: un pesante chuba (3) tibetano, un radi (18) e delle docha (19) imbottite di lana. Per il resto dell’equipaggiamento e delle provviste ci avrebbe pensato lui.
Ci demmo appuntamento per il mattino successivo in un vicino bhatti (12) dove un mercante solitamente stazionava.
L’acquisto del mulo
Arman si avvicinò al mercante, osservando con attenzione il mulo. «Dieci rupie» disse, lasciando cadere la cifra come se fosse scolpita nella pietra. Il vecchio scosse la testa con vigore. «Questo mulo vale almeno trenta! Guarda la forza delle sue zampe, la lucentezza del pelo». Dopo mezz’ora di scambi accesi, il mercante cedette, accettando quindici rupie e una manciata di spezie come pagamento aggiuntivo.
Al mercato Arman prese due otri di pelle per l’acqua. Cercò robusti sacchi di tela che avrebbe riempito con lenticchie, grano, tsampa (20), delle corde e una tela cerata per coprire le provviste.
Non potevamo portare altro. Un mulo al massimo poteva caricare 30-40 kg per non compromettere la salute dell’animale. Il resto lo avremmo dovuto trasportare a spalla.
Per sistemare tutti i dettagli impiegammo l’intera giornata. Arman sapeva esattamente cosa cercare e sembrava avere una precisa lista scolpita nella mente.
Il giorno prima della partenza
A sera io, come un’inutile appendice alla sua laboriosa giornata, mi trastullavo con il mio pesante taccuino da disegno. Ad un certo punto, con sguardo inquisitorio, Arman mi chiese: «Quanti ne hai di quelli?»
«Un paio completi con tutti i miei appunti e questo appena iniziato» risposi. Senza che quasi riuscissi a finire la frase, con tono autoritario sentenziò: «Non hai bisogno di tutti quei libri. La conoscenza non ti servirà a molto quando dovrai attraversare il prossimo passo innevato».
Mentre quasi mi spingeva fuori dalla sua casa, aggiunse: «Domani devo sbrigare alcune commissioni. Ci vedremo il giorno dopo, pronti per partire».
Rimasi con il naso quasi appoggiato a uno degli intarsi dell’uscio. Non mi restò che girare i tacchi e rientrare al monastero, dove affidai i miei preziosi appunti a un buon monaco, che mi promise che li avrebbe custoditi come la sua anima.
La visita al Tempio Pashupatinath
Il giorno dopo, come saluto alla città, mi recai al Tempio Pashupatinath. Lungo le rive del Bagmati, il fumo delle pire si alzava in spirali, portando con sé le preghiere dei viventi e il silenzio dei defunti.
Mi fermai a osservare un sacerdote, che versava acqua sacra su un corpo avvolto in stoffa, pronto per essere bruciato.
Il mio corpo era stanco ancor prima di partire. L’eccitazione che mi aveva permesso di raggiungere Kathmandu, l’attesa di Arman e i frenetici preparativi sembravano aver consumato ogni mia energia.
Mi misi a parlare con un sadhu. Gli raccontai che il giorno dopo sarei partito per il Regno di Lo e delle incertezze del viaggio. Lui, per tutta risposta, mi disse: «Mi hai raccontato del tuo viaggio, ma stai portando troppo. Non intendo i tuoi oggetti. Intendo il tuo corpo».
Rimasi confuso, finché non alzò il braccio magro, indicando il fumo delle pire, e aggiunse «Il corpo è un tempio, ma non eterno. È il respiro che viaggia, non i piedi.»
Una Notte di Sogni
Quella notte fu agitata, piena di sogni che sembravano volermi dire qualcosa. Era come se tutto ciò che mi aspettava fosse già iniziato, prima ancora che facessi il primo passo.
(2 – continua)
Glossario
(3) Chuba: Tunica di lana grezza – (7) Dhoti: Lunga striscia di tessuto che si avvolge intorno al corpo – (10) Seva: Servizi che fanno i residenti per mantenere un ashram – (12) Bhatti: sorta di caravanserraglio – (13) Pani: Acqua – (14) Ghar: Casa – (15) Chapati: Pane non lievitato – (16) Dal Bhat: Zuppa di lenticchie con riso – (17) Mala: Rosario usato per contare i mantra – (18) Radi: Mantello – (19) Docha: scarpe tradizionali tibetane imbottite fatte di pelle di yak – (20) Tsampa: Farina d’orzo tostata.