America’s Cup Napoli 2027: quella collettiva è sempre una farsa

L’evento non è ancora una certezza, ma già mille associazioni dicono No per conquistarsi spazi

E dunque, a Napoli si farà la Coppa America nel 2027. È una notizia che dovrebbe entusiasmare tutti: uno degli eventi sportivi più prestigiosi al mondo approda nel cuore del Mediterraneo, con vele, barche volanti e capitali da capogiro. Intendiamoci non sono un amante del business ma è una visione personale, esclusiva, privata.

Poi c’è il mondo là fuori. Manca solo il protocollo ufficiale — che, si badi, non è un timbro ministeriale, ma un documento tutto interno al mondo della vela -, redatto da chi ha vinto per riscrivere le regole a proprio uso e consumo. Una liturgia tutta sua, aristocratica e autoreferenziale. Perfetta per un evento che, prestigioso, si muove tra flutti vari.

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Napoli, d’altra parte, è la città degli opposti: celebrata ovunque per la sua bellezza struggente e condannata (giustamente) per il degrado cronico, la criminalità a km zero e una marginalità sociale archeologica. C’è sempre una “grande riqualificazione” in arrivo – sempre sbandierata, mai arrivata -. Ma questa volta, con la Coppa America alle porte, potrebbe esserci davvero una svolta. Bagnoli, ad esempio: promessa eterna di rinascita, ogni tanto la si tira fuori dal cassetto della retorica, si lucida un rendering, si stende un comunicato e poi la si rimette dentro, in attesa della prossima occasione. Ma ora, forse, è la volta buona: l’evento internazionale, l’orgoglio nazionale, gli occhi del mondo.

E infatti, come in ogni perfetta recita italiana, entra in scena l’opposizione di rito. Quale? Ma naturalmente, dai!, le associazioni ambientaliste e, che diamine, i comitati spontanei, le sigle autoreferenziali di chi ha fatto della contestazione a prescindere un mestiere perché non sa fare altro e non ha speranza di altro.

No alla “privatizzazione del mare”, “libera spiaggia in libero Stato”, “giù le mani dai nostri scogli”. Manca forse il culmine: “il mare è di tutti”.

Tutto molto commovente. Mi tocca interiormente. Peccato che proprio quegli stessi spazi di cui si invoca la difesa siano oggi teatro di un abusivismo tanto diffuso quanto redditizio. Lettini rubati da stabilimenti veri per improvvisare il giorno dopo stabilimenti falsi. Chioschi che appaiono dalla sera alla mattina, con la benedizione di nessuno.

E poi, degno di Report, il fenomeno milionario delle boe d’ormeggio. Concessioni moltiplicate come pani e pesci, galleggianti ovunque e affari milionari sott’acqua. E il mare, quello libero? Serve giusto a far da fondale alle transazioni bancarie.

Paolo Benini

A complicare il quadro, potrebbe esserci una nota influencer che fa parte del giro delle boe. I nuovi sacerdoti del consenso digitale: basti ricordare il recente fenomeno di massa generato e per cui, in pieno inverno, sono riusciti a spostare migliaia di persone in montagna senza che nessuno sapesse davvero il perché.

Il “coglionismo” è in grande espansione. Una forma moderna di potere tribale, che mescola ignoranza, algoritmo e FOMO — e che spesso si trasforma in esercito utile per le “cause” sbagliate. Ah la massa!!

Ma non basta. Perché sotto la foglia di fico dell’ambientalismo spunta sottotraccia anche, puntuale, la narrazione preferita da chi non ha argomenti: il ricco contro il povero.

La Coppa America? Roba per miliardari, quindi da osteggiare a prescindere. Le grandi manifestazioni? Elite, speculazione, yacht e champagne. Tutto ciò che puzza di successo, di impresa, di progettualità, viene immediatamente avvolto nella carta moschicida dell’odio sociale. È il solito teatrino della, patetica, massa indignata che si autoassolve e si autorappresenta, mentre contribuisce – senza nemmeno accorgersene – alla stagnazione generale.

Chi scrive ha sempre nutrito una certa diffidenza verso la massa. Un pregiudizio? Forse. Una postura snob? Sicuro. Ma ogni volta che si osservano fenomeni del genere, viene da pensare che no, non è solo snobismo: è buon senso. È l’istinto di chi riconosce, nel lamento collettivo, la maschera dell’interesse personale della volpe e dell’uva, travestito da battaglia etica. O, nei casi peggiori, l’eco della semplice stupidità.

E qui, si infila Siena, con le sue dinamiche simili, sebbene su scala ridotta. Anche lì, ogni sei mesi arriva l’annuncio trionfale di un grande rilancio, una “nuova visione”, un “grande progetto per la città”. E puntualmente tra i grandi titoli si infila il Santa Maria della Scala, che è un po’ come la Bagnoli di Napoli: un eterno malato, mantenuto in vita a colpi di comunicati stampa. Ogni tre per due si annuncia una rinascita, un rilancio, una destinazione culturale di respiro internazionale. E poi niente. Rinviato. Rallentato. In apnea.

Napoli è la sorella maggiore di Siena. Più contraddittoria, più esplosiva, più tragicamente viva. Siena, in confronto, è la sorellina sonnambula, che si muove poco, parla ancora meno, ma riesce comunque a dire di no a tutto. Anche a se stessa.

Beato me, verrebbe da dire, che mi occupo di sport. Dove sì, ci sono i furbi, i dopati, gli interessi. Ma poi arriva la gara: uno vince, l’altro perde. E lì, finalmente, la verità non si vota a maggioranza, non si inscena, non si contesta. Si impone.

Un lusso che certi ambienti – spiagge, boe, comitati, follower, e gente vana – non possono permettersi.

Paolo Benini

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