Jaipur, la Città Rosa

Le avventure e le disavventure di un povero viaggiatore. Una sosta per dare sollievo alle ossa

L’arrivo a Jaipur avvenne dopo una lunga giornata nelle campagne indiane. Il giorno precedente avevo impiegato oltre dieci ore per raggiungere la Città Rosa.
Parcheggiata la moto, l’unico desiderio era sdraiarsi su qualsiasi ripiano che potesse assomigliare a un letto: le ossa scricchiolavano come le gambe di una vecchia credenza mangiata dai tarli.

Per il giorno successivo avevo pianificato qualche visita agli splendidi monumenti, ma il desiderio principale era confondermi tra la folla per sbirciare il lascito della dinastia Moghul, la cui economia nel XVII secolo valeva un quarto del PIL mondiale.

- Advertisement -

L’hotel dove alloggiavo era in periferia, un po’ decadente ma con un loggiato carino, fatto con snelle colonne di ghisa disposte su due piani. Lo rendevano attraente.
La notte avevo dormicchiato, ma il rumore incessante di auto, tuk tuk, camion e ogni altro mezzo con ruote che vi possiate immaginare non aveva reso facile il riposo.

Così, di buon’ora, ero di nuovo in moto diretto alla fortezza di Amber. Il traffico di Jaipur mi ingloba – non so quale altra parola usare. Ogni centimetro di asfalto è occupato da un mezzo che muove le ruote in piena anarchia.
Mentre sono lì, incastrato tra un parafango e lo sportello di un’auto da cui esce una musica assordante, improvvisamente credo di aver capito quale può essere l’algoritmo che muove il traffico.

Non c’è altra spiegazione, mi dico, altrimenti l’avanzamento – senza incidenti continui – è inspiegabile.

Postulato: per prima cosa, occorre mettere la ruota dove c’è spazio, anche nel più piccolo dei pertugi.
Seconda mossa: provare a spostarsi in avanti, per testare la volontà del guidatore a cui stiamo tagliando la strada.
Terza: se questo ha un attimo di debolezza, un piccolo mancamento… entra deciso e procedi.

Si innesca un vero corpo a corpo, che ingaggio dopo ingaggio – in una sfida continua – ti porta avanti. Nessuno sembra stressato da questo braccio di ferro: è un role-playing game, col sorriso sulle labbra e il clacson perennemente pigiato.

Applicando pedissequamente la regola, riesco in qualche maniera a superare il centro e a salire i tornanti verso la valle presidiata dal forte.

In lontananza, già da un paio di chilometri, la struttura appare imponente: occupa un intero lato della valle e si arrampica sulla costa della montagna. Si specchia nel placido lago Maota.
Una lunghissima rampa sale avvolgente sulla collina. Da lontano vedo una fila infinita di elefanti: con il loro passo dondolante portano schiere di turisti corpulenti.

Parcheggio la moto, tratto con il custode una cifra onesta per lasciare giacca e casco, poi mi incammino verso la rampa di accesso.

Visti da vicino, sulla ripida salita, gli elefanti sembrano davvero affaticati. Portano i culi flaccidi di tronfi turisti su una sorta di trono fissato sui fianchi. Non mi sembra un lavoro giusto per questi poveri animali.
Le bestie salgono docili, e a ogni leggera impuntatura vengono colpite dietro le orecchie. Sono infastidito. Avrei voglia di tornare indietro.
Solo l’imponente palazzo su quattro livelli riesce a distogliere l’attenzione da quello spettacolo degradante.

Ogni livello della splendida dimora ha una corte con funzioni specifiche: in quella più bassa c’è la sala delle udienze, finemente decorata; in quella più alta, un giardino segreto.
Tra le siepi, una donna con un lungo sari arancione cura le piante. È bellissima, e credo sappia di attirare tutti gli sguardi come una calamita. Ha gesti leggeri: non sembra accudirle, ma accarezzarle.

Cammino per corridoi infiniti, salgo ripide scale. Dalle finestre si aprono scorci di grande suggestione. Sul retro del palazzo, piantato sulla cresta del Monte delle Aquile, si staglia il forte di Jaigarh, che presidia l’intera valle. Qui i Maharaja Rajput e le loro famiglie potevano rifugiarsi in caso di attacco.

L’insieme della struttura appare perfetto: il lago visto dall’alto, con il piccolo giardino ancorato come una piattaforma, è un’opera d’arte. Tutto sembra pensato per esaltare la potenza della famiglia Rajput, appartenente alla casta induista dei Kshatriya, la seconda per importanza nel sistema delle caste, subito dopo i bramini.

Bene, dopo tanta opulenza, non ho più voglia di fare il turista. Voglio tuffarmi tra la gente: un naan unto d’olio e un piatto di riso fanno da catalizzatore per il ritorno alla realtà del colorato mondo dei mercati.

Qui è la gente lo spettacolo più bello del mondo.
Un vecchio seduto su una panchina indossa un dhoti di cotone bianco. In testa ha un safà dello stesso colore. Ha barba e baffi curatissimi, in attesa di chissà quale evento… o solo dello scorrere della vita.
Un venditore di laddu, dolcetti usati spesso per le offerte, li ha ordinati in perfette file su più piani. Composti di cardamomo, farina di ceci, burro e zucchero, rispecchiano l’equilibrio tra il sacro e il quotidiano: dolci per gli dei e per l’uomo, offerti nello stesso gesto.

Due ragazzi, come in una catena di montaggio, friggono i puri, dischi di una pastella fatta con il grano che a contatto con l’olio bollente si gonfiano come palline. Fanno il lavoro meccanicamente, con una precisione sconcertante: ne producono a decine, con gli occhi fissi sul telefonino, come se le mani non appartenessero al corpo.

Vecchi negozi di barbiere – che forse molti anni fa hanno avuto un momento di splendore – sono vuoti, in attesa di clienti.
Un uomo batte la lamiera per fare scodelle: ha il viso e le braccia coperti di fuliggine, gli occhi così storti che fatico a capire dove stia guardando.

Mi aggiro tra i banchi con gli occhi persi tra bancarelle dai mille colori: montagne di cibo, semi, spezie ordinate su vassoi a formare piramidi colorate. Accarezzano gli occhi.

L’India ha mille odori, mille profumi: ogni giorno ti avvolgono. E oggi, anche quello che ieri ti sembrava sgradevole, ti senti di accettarlo: è odore di gente, di vita.
Odore, sapore, profumo: di ogni cosa che anima i luoghi.

Alla fine del giorno entro nel Hawa Mahal, il Palazzo dei Venti. Da qui le donne del Maharaja potevano osservare la vita di strada senza essere viste.
Nascoste dietro a piccole finestre, ricche, adorne di gioielli, protette dalle mura di un palazzo. Recluse, ma desiderose di vedere – almeno da lontano – la vita che scorre. Che genera altra vita.

Anche per oggi il racconto finisce qui. Se vi fa piacere, ci vediamo il prossimo lunedì.
E come sempre:
Se tutto è andato bene, allora nulla è andato bene.
Stay Wild, Stay Shanti.

(16 – continua)

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Exit mobile version