Armenia, Ughtasar un lago a quota 3300 metri

Viaggio sconsigliato senza una guida, ma con arrivo in un luogo caro agli dei

Un’altra parte di avventura tra prati e montagne alla ricerca di luoghi magici e remoti. I precedenti racconti sull’Armenia riguardano il lago Sevan e la fortezza di Smbataberd.

Tsghuk;  “Petroglifi , Sciamani e Pellegrini”

Oggi, fuori, diluvia, e mi sento un po’ spiazzato. Con il mio amico decidiamo di cambiare programma, saltare l’impervia strada tra i monti e puntare direttamente verso Tatev

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Indossiamo le tute da pioggia e, con le orecchie basse, ci avviamo mestamente. Poi, una volta scesi di quota, uno squarcio di azzurro: lassù qualcuno ci ama, mi viene da gridare. Dopo dieci chilometri, riappare uno splendido sole. Bene, lo prendo come un segno e tento la sorte: proverò la salita alla montagna del pellegrinaggio, verso il lago Ughtasar, a quota 3300 metri sul Monte Tsghuk

Attorno a un bacino di origine vulcanica, si trovano petroglifi risalenti a 12.000 anni fa: incisioni su lastre di nera lava, che narrano di tradizioni, miti e tribù, di vittorie e sconfitte. 

Il posto è quasi inaccessibile. Ho letto nei resoconti di altri viaggiatori che è fortemente sconsigliato andare senza una guida e una robusta jeep. Io non ho né l’una né l’altra, solo un punto sul mio GPS. 

Arrivato nel piccolo villaggio di Ishkhanasar, chiedo indicazioni a un contadino. Sembra conoscere bene quel luogo. Mi prende per un braccio, mi trascina al margine del paese e indica una montagna. Unisce le mani a coppa per rappresentare la piccola valle subito sotto la cima, poi, abbassando le mani, mi mostra i segni delle ruote di un carro sull’erba dei campi e spinge avanti la mano per segnare il cammino. 

Guardo in alto: vento e nubi sembrano circondare la cima e non promettono nulla di buono, ma sono a circa venti chilometri dalla meta e decido di tentare la salita. 

Imbocco il sentiero e cerco di orientarmi, ma altre tracce si incrociano e più volte devo tornare indietro, finendo nel nulla di un mare d’erba. 

Unico aiuto è la distanza dal punto di arrivo, calcolata dal GPS: quando si accorcia, la via è presumibilmente quella giusta, quando si allontana, ho preso il sentiero sbagliato. Avvicinandomi alla montagna, non riesco più a vedere la meta. 

In un’ora percorro dieci chilometri, come se fossimo a piedi e non su una moto. 

Cerco di farmi coraggio e, per allentare la tensione, mi fermo a bere un po’ d’acqua. Come spesso accade, la fortuna aiuta gli audaci o gli incoscienti, decidete voi. In lontananza vedo un Land Rover arrancare su per la salita. Mi fermo a osservare la traccia che percorre sul fianco della montagna. Aspetto che si allontanino un po’ e li seguo con lo sguardo: è certamente una guida che porta qualche turista ai petroglifi. Ora ho il mio filo di Arianna, che mi porterà dritto alla meta. 

Il tragitto negli ultimi chilometri ha una pendenza quasi impossibile. Devo superare un’infida sassicaia. Arranco, mi affido al fedele DR che, come un piccolo mulo ubbidiente, mi porta su per la china: sembra sappia dove mettere le ruote, dove fa meno male. 

Devo di nuovo fermarmi, questa volta per riprendere fiato. Lo sforzo sulle braccia e sulle gambe si fa sentire, siamo già oltre tremila metri e ho un po’ di affanno. 

Sotto la cresta trovo il Land Rover abbandonato: la strada è sbarrata da un ammasso di neve. Metto le ruote su un piccolo ciglio, fatto di rocce nere tenute insieme dal ghiaccio. Do un colpo di gas e, con l’abbrivio, supero questo ultimo ostacolo e raggiungo un tratto pianeggiante. 

La valle è magnifica, coronata di cime innevate. Cammino sui prati, aggirando i grossi banchi di neve che ancora coprono l’erba. Scorgo tratti di un basso muro a secco: sono la traccia di un antico insediamento temporaneo. Questi luoghi si possono raggiungere solo nei mesi di luglio e agosto, poi una alta coltre di neve li ricopre. 

Rimango fermo a guardare il magnifico paesaggio: i forti contrasti tra il verde dei prati, il bianco della neve e il lucido, nero specchio del lago. 

Si capisce la sacralità del luogo: la maestosità dei picchi, la posizione elevata e isolata del sito, circondato da montagne e laghi glaciali, rafforza il suo significato spirituale. Anche a un uomo contemporaneo come me viene da pensare che questo non può essere altro che un punto di contatto tra il mondo terreno e quello di qualsiasi divinità in cui crediate. 

E i petroglifi? Purtroppo, scovo solo una nera lastra piena di simboli. Cerco di scorgere le figure: ho letto che i disegni geometrici e cosmologici presenti suggeriscono una conoscenza dei movimenti celesti e una possibile connessione con l’adorazione degli elementi naturali, come il sole e la luna. 

Sicuramente i pellegrini venivano in questi luoghi per compiere riti propiziatori, sciamanici per la caccia o per la fertilità. 

Mi giro intorno, cerco gli occupanti della jeep, ma non vedo nessuno. Forse a piedi avranno seguito il crinale, per me impraticabile. Sicuramente ci sono altre pietre, ma la neve, le precarie istruzioni e la mia incapacità di leggere le tracce mi hanno impedito di trovarle. Non importa, ho il cuore leggero: anche io ho compiuto il mio pellegrinaggio, la mia ascensione in un luogo caro agli dei. 

E ora è finita? No, inizia la discesa, più complessa della salita. Ma con la grazia ricevuta, rotolo a valle, ritrovo l’asfalto, metto alla frusta la moto e, come ultimo regalo, sul finire della sera mi godo lo splendido monastero di Tatev.

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