Nelle vesti di “figlio della maestra” un ricordo-omaggio valido per tutte le genitrici
Ho scritto questa cosa un po’ di tempo fa, vicino alla Festa della Mamma, a volte lo faccio solo per riordinare i pensieri che mi agitano la mente. Ieri era la sua festa e queste poche righe mi sono tornate alla mente.
Il figlio della maestra
Io sono un orso e odio tutte le feste, in special modo quelle in cui si deve scegliere con chi stare, credo, come la maggior parte dei figli di genitori separati. Ma spesso, una parola, accende i ricordi, ti fa riflettere. Allora, in un mondo che cerca di catalogare per capire, di ordinare per semplificare, mi sono chiesto: di chi sono figlio? A quale categoria appartengo?
Ho iniziato a enumerare mentalmente i luoghi comuni, declinandoli: ci sono i figli di papà, i figli del popolo, il figlio dell’ingegnere, i figli del dottore…
Spesso sono declinati al maschile e hanno un preciso valore: il più alto, la categoria più importante, acquisisce nell’immaginario collettivo più peso. È come se qualcuno partisse avvantaggiato, appartenendo a quella categoria, con la strada in discesa. Altri, appena nati, già dovevano superare il primo ostacolo. E le madri? Ci sono delle categorie declinate al femminile? Rare, poco usate.
Allora ho preso un vecchio album, sfogliandolo ho ritrovato una foto di mia madre. Ci aveva portato allo Zoo di Roma. Guardandola, mi è preso un attimo di nostalgia. Per un istante ho tremato. Lei che abbraccia me e mia sorella, bella come solo le mamme sanno essere, con i capelli gonfi, come usava allora, teneva abbracciati i suoi figli.
Mi sono ripetuto: io a quale categoria appartengo?
La mamma faceva la maestra. Andava da Siena a Celsa in bicicletta per fare il suo lavoro. Poi, con i primi soldi, comprò una Lambretta e quando siamo arrivati noi, una Cinquecento rossa, quella con gli sportelli controvento.
Nei miei giochi di bimbo, tormentavo fino allo sfinimento la pompetta lavavetri. Era una semplice membrana di gomma morbida. Lei me lo lasciava fare, fino a che l’acqua non finiva. Nella mia mente di bimbo pensavo: “Ora le grondaie del tettuccio la riempiranno di nuovo, ed io potrò ricominciare il gioco”.
Consideravo l’auto come una piccola casa, era il posto dove condividevamo le gioie: il panino sui sassi dell’Orcia, la salita all’Amiata, le gite a Follonica, sballottati dalle curve di Prata.
Allora, non divagare, concludi. In quale categoria ti metti? Beh… non so, non riesco a mettermi in una categoria. Io ho sempre visto i rapporti umani come singolarità di valore infinito, attorno a cui ruota tutto il nostro universo. Comunque… il figlio della maestra mi piace.