Pensieri critici a conclusione di una visita a “Passioni in Campo”, la mostra del pittore del Palio
Oggi la nostra rubrica #caffèdarte contiene critiche abbastanza decise al pittore del Palio di Luglio. Una pagina di critica d’arte che, come la definisce l’autore Francesco Salerno, è “davvero corrosiva ma altrettanto onesta, in cui si fa uso della retorica iperbolica, lungi da quella paradossale, attraverso una lucida lente interpretativa e un’incalzante catena argomentativa, entrambe sensatamente elaborate”. Crediamo che la comprensione di bello e brutto, approvabile e non approvabile, non benefici, quando si parla di arte ed estetica, dei mezzi termini, delle ampollosità e delle astrazioni… quindi quella che andate a leggere è una critica negativa. Ed allora chi volesse porsi per quella positiva, non avrà che da chiederci libero e gratuito spazio per replicare (dr).
Sfilate di santi, in estasi masturbatoria, abili prestigiatori di colombe, sofferenti per il gusto di patire pene immateriali, che però – a detta di alcuni – fanno curriculum. Beate beghine, filatrici di vecchie parabole, bacchettone fino al midollo, vergognose per le nudità di qualche collega giovanotto (dall’aria ohibò, non si dica fin troppo frocesca). Miracolose moltiplicazioni di mani come di pani e pesci, che giocano a morra, dadi e carte, in convulse manipolazioni falliche (suvvia, sono imposizioni sacramentali). Trine e ricami, guanti e pellicce, broccati incensati e sacri velluti da fiera campionaria avignonese, ori e preziosi degni di un Papa Re prima della breccia di Porta Pia. Teorie di croci, crocette, crocioni, sorprendenti diavoli cornuti tenuti al guinzaglio (espressione non sia mai di un rimosso sadomaso). Udite udite, avanguardia allo stato puro.
Uno spettacolo di questo tenore avrebbe accolto chi incappava casualmente nella mostra diffusa “Passioni in Campo”, dal titolo evocante un derby calcistico più che una rassegna d’arte, radunata nei Magazzini del Sale da Giugno ai primi di Luglio e fortemente voluta dall’attuale amministrazione comunale, per consacrare agli altari l’ennesimo pittore sfibrato del Palio di Provenzano, Giovanni Gasparro (Bari, 1983), ostentato anacronista, ovvero interprete ideale per le aspirazioni mistiche e devozionali della destra italiana.
Una visione così trasudante di castranti omelie e sangue crociato, unzioni benedette e prediche bernardiniane, ignorante populismo e becero bigottismo, minoranze perseguitate e dogmi impanati, da provocare nel visitatore certe vogliette oscurantiste, fatte di esorcismi, roghi e carne bruciata a puntino. Una rondine non farà primavera, ma un peccatore punito fa sempre festa!
Uno spiritualismo iberico più che nostrano, nostalgico dell’Inquisizione, che accidentalmente – al pari di un preparato alchemico ben riuscito – si trasmuta in martirismo neo-nazista, come testimoniato da “Il Martirio di San Simonino, per omicidio rituale ebraico” (2020), opera anti-semita e razziale, sfortunatamente esclusa dall’esposizione (ahinoi, che peccato), in cui un plotone di aguzzini ebrei deformi, sporchi e viscidi uccide un bimbo innocente. Inutile dire che si trattò di un fattaccio noir costruito ad hoc dalla propaganda filo-cattolica quattrocentesca, ma efficacemente riattualizzato in un delirio anti-abortista con intenti persecutori, visto che il ventre delle donne è latifondo di Dio e che i giudei, lo sanno tutti, hanno messo a morte Nostro Signore. Da Padre Torquemada a Pro Vita e Famiglia è un attimo, sebbene al peggio non vi sia mai fine.
Come un’insaziabile zecca dallo stomaco brontolante, la tavolozza dell’artista si nutre di prelibate trasfusioni invecchiate in botti di rovere, ora da Jusepe de Ribera, Mattia Preti, Francisco de Zurbarán, ora da Francesco Cairo e Giovanni Battista Piazzetta. Riferimenti coltissimi della tradizione tenebrista Sei-Settecentesca –e non caravaggesca o peggio ancora guercinesca, come tanti faciloni scrivono, nell’attesa di cambiare mestiere– che alla luce di una stomachevole rilettura in chiave di “barocco surrealista” risultano degradati a meri testimoni di un ineluttabile disfacimento culturale.
Anche se caramellato come un budino, talmente stucchevole da far venir sete, leccato da un pennellino in setola di coniglio, perlomeno lo stile del Gasparro risulta più accattivante rispetto alla banalità oltranzista di Roberto Ferri, quintessenza del coma creativo, ma lo scarto risulta quasi intangibile. Quella liberazione delle arti figurative dall’ossessione limitante del realismo mimetico dopo la scoperta della fotografia – auspicata, ma che dico, sancita dal brillante André Bazin negli anni quaranta del Novecento – deve ancora essere elaborata se non del tutto processata, peggio per noi, a distanza di circa un secolo.
Teofanie improvvisate, involuzioni demodé, fenomeni social, glorificati da critici bolliti, fotonici art advisor e da intendenti di cucina, che scambiano il mero virtuosismo tecnico per autentica vocazione poetica, fuoriclasse nelle comparazioni impossibili coi giganti dell’arte antica, scomodando ad ogni occasione Raffaello, Michelangelo o Caravaggio, come si sceglie la borsa taroccata da abbinare al bracciale d’oro di nonna. Insensate blasfemie storico-critiche, incarnazioni del pessimo gusto, ergo tipicamente sgarbiane.
Ben calato all’interno di questa controversa consuetudine, l’aspetto più sconvolgente del pittore è che sia ritenuto universalmente un interprete “moderno” della pittura cristiana, anche se abbiamo dimostrato esattamente l’opposto, svelando i “tenebrosi segreti” (poco nascosti, dietro chili di falso pietismo sacerdotale) di un auto-compiaciuto apostolo del passatismo reazionario. In barba allo stato laico! Si stava meglio quando c’era Savonarola e i “falò delle vanità” erano sempre in orario.
In aggiunta, parlare di «audace classicismo» e «potenza evocativa» da parte della Pinacoteca e del Comune per un drappellone così ordinario, che ruba silenziosamente dal Velázquez sivigliano e dal Piazzetta più scontato, borseggiando en passant dalla dispensa di El Greco, in una sintesi stanca e mal riuscita, con immancabile spruzzata finale di angioletti (giammai che la gloria ultraterrena ne sia sfornita), lascia alquanto stupiti e inorriditi della deriva culturale senese. Presto, si salvi chi può!
Giunti faticosamente alla conclusione, dobbiamo riservare un plauso sentito agli organizzatori della mostra che sono riusciti nel loro iniziale intento programmatico: “Passioni in Campo” è stata davvero una Via Crucis, un’ingozzata catechistica di cui ne sentivamo ardentemente il bisogno. Rimane solo da augurarci che il Gasparro lasci stare i pennelli, impugni il rosario e stringa il cilicio. Correte tutti, le tenebre arrivano.
Francesco Salerno
P.S. Desidero ringraziare la cara amica Sofia Garavelli per le immagini della mostra.