Cercando il mio Oriente

Paolo Benini replica a Ivano Zeppi: uno sguardo aristocratico sul mondo, tra Nietzsche, Taleb e il coraggio del disincanto

Paolo, partiamo da una cosa semplice. Zeppi ha letto i tuoi articoli e ha deciso di scrivere una riflessione che ti chiama direttamente in causa. Ti ha letto, ti ha annotato, ti ha pensato. Come l’hai presa?

“Con piacere, davvero. È raro che ci si prenda il tempo per leggere nel profondo e cercare il senso, magari anche quello che sta sotto la superficie. Quindi grazie a Zeppi. E aggiungo una cosa: scrivo innanzitutto per me. È un esercizio, una disciplina interiore che mi serve a mettere ordine nei pensieri, a capire come funziona la mia mente. Non scrivo per persuadere nessuno. Condivido quello che scrivo solo nella speranza che possa generare interrogativi in chi legge. Non cerco consenso: cerco comprensione”.

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Il tuo approccio è stato definito “aristocratico”, e tu non ti sei sottratto a questa definizione. Anzi, l’hai rilanciata, ma in un’accezione molto personale…

“Sì, uso quel termine senza nostalgia per un passato di sangue blu che non ho. Anzi in quel senso lo trovo rigidissimo. Parlo di un’aristocrazia dello sguardo: la scelta di stare a una certa distanza dalle passioni collettive, dalle emozioni tumultuose della folla. Provo anche disprezzo per chi aderisce perché senza aderire si sente nulla. Solo così, con questo sguardo aristocratico – credo – possiamo vedere le cose per ciò che sono e non per come ci piacerebbe che fossero o ci raccontano che sono. È una postura interiore, non sociale”.

Zeppi ha scritto che parlare di guerra in certi termini rischia di sembrare freddo o addirittura cinico. Tu, invece, usi il tema bellico come metafora delle narrazioni. Come lo spieghi?

“Non scrivo di guerra perché mi affascina la guerra. In sostanza non mi affascina niente se non il dietro delle cose. Posso scrivere su qualunque cosa e guardare cosa ci potrebbe essere dietro. Scrivo della guerra come esempio estremo ed attuale di una dinamica più generale: la costruzione della narrazione. Ogni evento pubblico diventa pretesto per capire come si forma e si consolida una visione del mondo. Che uso facciamo dei simboli? Che ruolo ha la paura? Quali parole vengono ripetute? Chi le usa e a cosa serve quel discorso? Ecco, è questo che mi interessa: il processo, non il fatto contingente. È lì che si annida il potere reale, anche psicologico”.

A un certo punto tiri in ballo Fat Tony, personaggio inventato da Taleb, per parlare di un certo tipo di pragmatismo. Chi è il tuo Fat Tony?

“Taleb forse si ispira ai Simpson che a loro volta forse si ispirano a Toni Salerno, un gangster. È un atteggiamento mentale. Non si lascia abbindolare dalla teoria, le chiacchiere, i grafici , osserva i fatti, cerca di capire le connessioni. Non urla, non predica, anzi, ma ragiona con la propria testa. E soprattutto: non si fa prendere dal panico. In questo senso, è un modello. Non un guru, ma un promemoria: la mente libera è quella che resiste alle narrazioni preconfezionate. Anche quando sembrano “buone” troppo facilmente”.

Zeppi ti chiede: tutto questo dove ci porta? Non è forse una forma di nichilismo? Una sfiducia nei confronti della collettività?

“Rispondo con Nietzsche. Secondo me si reincarna in parte dentro di me. Scherzo naturalmente. Il nichilismo non è il punto di arrivo, ma il passaggio. È il momento in cui crollano le certezze, ma solo per lasciare spazio a una nuova forma di consapevolezza. Il “superuomo” nietzschiano non è un dominatore: è un individuo che non si accontenta, che cerca uno sguardo alto, che si emancipa dalla massa e dalle sue illusioni. Anche Evola, se vuoi, parlava di aristocrazia spirituale: non come superiorità sociale, ma come forma di indipendenza interiore. Di sicuro non possiamo andare avanti con le chiese umanizzate”.

Però questo modo di vedere il mondo esclude, in fondo, ogni possibilità di costruire una coscienza collettiva. Non credi?

“Al contrario. Credo che la consapevolezza individuale possa avere un effetto moltiplicatore. Ma non nasce da corsi collettivi di formazione o da grandi eventi mediatici. Nasce dalla fatica del singolo che coinvolge altri singoli e avanti cosi. Ma la grande massa resterà acefala e la scienza supporta. È un processo lento: la massa impazzisce insieme, ma gli uomini rinsaviscono uno alla volta. Non ricordo chi lo ha scritto, ma è verissimo”.

Quindi scrivi non per cambiare il mondo, ma per capire come funziona?

“Esatto. Scrivo per vedere come A genera B, come B genera C. Scrivo perché voglio capire, non per evangelizzare. Chi legge può farne ciò che vuole. Per me è una forma di onestà. Non si tratta di disfattismo o resa: è uno sguardo lucido, senza illusioni. E forse è proprio questo che ci rende, paradossalmente, un po’ più liberi”.

Se dovessi mettere un titolo a questo tuo modo di abitare la realtà, quale sarebbe?

“Cercando il mio Oriente: perché smontare le narrazioni ci rende più liberi”.

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