Con l’uccisione a Teheran del capo di Hamas la prospettiva di pace si allontanano

Il commento di Gianni Cuperlo nella sua pagina Facebook

L’uccisione a Teheran del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, con un’operazione mirata da parte delle forze armate israeliane nei fatti contribuisce a seppellire le residue speranze di una trattativa ravvicinata.

Haniyeh viveva principalmente in Qatar e da lì coordinava le attività politiche e diplomatiche di Hamas.

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Era considerato da più parti un interlocutore “pragmatico e moderato” rispetto ai leader dell’ala armata di Hamas.

Formalmente era capo del Politburo di Hamas: un consiglio di 15 membri che assume le decisioni più rilevanti e che ha sede nel Qatar.

Fonti diverse sostengono che non fosse chiaro (anche per la distanza fisica dalla Striscia) quale ruolo Haniyeh avesse svolto nell’organizzare e ideare il pogrom del 7 ottobre contro i civili israeliani.

La sua biografia, per anni vicinissimo al fondatore dell’organizzazione, Ahmed Yassin, ne faceva comunque una figura chiave.

Ciò rende ancora più evidente come l’azione di Netanyahu continui a percorrere la strada della guerra da combattere senza lasciare margine alcuno a uno spiraglio di trattativa.

Continuare a spargere il sangue è la garanzia di sopravvivenza politica di Netanyahu, ma è anche la strada destinata a perpetuare uccisioni, stragi, carneficine come quella in atto a Gaza.

L’Egitto ha condannato l’uccisione di Haniyeh parlando di una escalation pericolosa e della scelta di “minare gli sforzi per fermare la guerra“.

Il segretario di Stato americano, Blinken, ha dichiarato che gli Stati Uniti “non sapevano nulla e non sono stati coinvolti”.

Ha anche aggiunto: “è vitale raggiungere un accordo sul cessate del fuoco e il rilascio degli ostaggi da Gaza”.

Erdogan si è espresso con queste parole: “la barbarie sionista non raggiungerà i suoi obiettivi”.

Tutto questo mentre i morti si contano a migliaia e chi dovrebbe, o potrebbe, agire per bloccare questa tragedia finisce con l’alimentare i giacimenti dell’odio, della rappresaglia e della vendetta.

La prima Intifada (detta anche delle pietre) ebbe la durata di cinque anni e causò circa mille morti.

Ma sembravano molti, troppi, alle leadership israeliane e palestinesi.

In mezzo a infinite difficoltà si giunse all’accordo storico e alla stretta di mano sul prato della Casa Bianca tra Rabin e Arafat.

Quella prospettiva si infranse per la duplice opposizione dell’ala radicalizzata israeliana incarnata anche da Netanyahu e dall’estremismo di Hamas.

Oggi, è difficilissimo intravedere su entrambe le parti interlocutori che abbiano la volontà di chiudere la pagina terribile di questi mesi, eppure senza una spinta delle forze che pure vi sono e che non si riconosco nella leadership criminale di Netanyahu e nella spirale distruttiva di Hamas, soggetto che finisce con l’esporre il popolo palestinese a un martirio senza salvezza.

Servirebbe ampliare lo spazio della politica, ma su questo bisognerebbe che soggetti terzi e quarti si assumessero le loro responsabilità a partire dal governo italiano e dal riconoscimento dello Stato palestinese.

Mai come oggi il solo pensiero di conforto dinanzi alla tragedia è ancora quello: il pessimismo della ragione contrapposto all’ottimismo della volontà.

Gianni Cuperlo

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