Pubblichiamo una riflessione dell’on. Gianni Cuperlo che prendiamo dalla sua pagina facebook. Tratta di disuguaglianza e inclusione, della sfida di ricostruire la democrazia.
Domenica scorsa, Achille Occhetto sulle pagine di “Domani” ha fotografato il compito nuovo della sinistra a fronte di un mondo ribaltato nelle sue fondamenta.
Il senso era che non si tratta solamente di sortire da una condizione di minorità nei confronti della destra trumpiana, ma di attrezzare una reazione alla volontà di archiviare la democrazia liberale in un connubio tra tecno-finanza e tecno-politica che riassume un cambio di egemonia culturale.
In particolare, l’analisi di Occhetto incitava la politica a svestire i panni della tattica – la recente querelle sul meglio uniti o divisi – per contrapporre al racconto della destra una narrazione capace di scuotere sentimenti e passioni di un popolo tuttora “in sonno”.
Non ho dubbi che sia l’impostazione giusta a partire dalla natura della destra oggetto della critica.
Viene naturale pensare a Trump e alle prime mosse del suo secondo mandato.
Personalmente, se dovessi dire dove si spezza qualcosa di profondo della nostra civiltà politica, penso alle parole usate dopo il disastro dell’aereo precipitato giorni fa nel fiume Potomac, col presidente americano a imputarne la causa “nella spinta alla diversità che include l’assunzione di persone con disabilità intellettuali e psichiche”.
Dopo i migranti deportati coi ceppi ai piedi, l’imposizione all’umanità di due generi senza margini per altre vite, l’attacco alle disabilità segna il culmine della bestialità.
Ma questa è la destra sugli scudi adesso.
Quella emersa spesso vincente da un anno, quello appena lasciato alle spalle, che ha visto chiamata alle urne oltre metà della popolazione mondiale.
Come si è scritto, siamo davanti a uno spostamento dell’asse politico-elettorale in Europa e nel mondo, con una tendenza globale che aggredisce gli ordinamenti democratici e liberali, ma anche taluni principi della tolleranza illuminista e della convivenza sociale per com’era maturata dopo le tragedie del ‘900 e gli sviluppi delle teorie sull’uguaglianza: da John Rawls ad Amartya Sen, sino al nostro Salvatore Veca e alla semina del Concilio Vaticano II.
Il punto è che assieme a confini elettorali e argini culturali stanno precipitando quelle barriere morali su cui a lungo si è retto un modello di convivenza.
Ora, la domanda posta da Occhetto e Mauro è come contrastare tutto questo.
Come ricostruire quegli argini dopo un’alluvione che rischia di sommergere il campo da gioco della democrazia.
Serve muovere dai bisogni materiali delle persone e delle famiglie?
Intendo, il diritto a curarsi, a un tetto sulla testa, un salario adeguato, un’istruzione pubblica e pensioni degne?
Certo, tutto questo è assolutamente decisivo e fa benissimo Elly Schlein a insistere con forza su quell’agenda, ma se siamo giunti dove siamo è anche per l’avere taciuto negli anni una verità: che questa destra ci sfidava oltre che sulle ricette dell’economia, anche sul piano dei valori che fondano uno spirito di comunità e, tramite quello, un senso del limite all’espandersi della disuguaglianza.
In qualche modo torna la riflessione di Bobbio in quel volumetto prezioso di parecchi anni fa su destra e sinistra.
Ma con un’aggiunta.
Ed è che su quello specifico terreno – i motivi in grado di tenere assieme una società sviluppata e con uno Stato sociale che aveva promesso protezione dalla culla fino all’ultimo giorno della vita – a un certo punto la distinzione tra noi e gli altri si è infiacchita.
A quel punto non sono franate solamente alcune tutele nel mercato del lavoro, nell’acceso alla cittadinanza come sullo ius soli o il fine vita, nel passaggio di testimone tra genitori e figli o nipoti.
Lì sono venuti a mancare ancoraggi ideali e sane speranze collettive.
Si è trattato, dunque, anche di un cedimento culturale.
Perché è vero che la destra ha cambiato il giudizio sulla disuguaglianza, ma quale è stata la risposta?
Michael Sandel ha ricordato come Larry Summers, rettore di Harvard, di provata fede democratica, strettissimo collaboratore di Clinton, anni fa pronunciò una frase che aiuta a capire la debacle dei Democratici, disse: “Una delle ragioni per cui la disuguaglianza è aumentata nella nostra società sta nel fatto che le persone vengono trattate nel modo più prossimo a come debbono essere trattate”, formula neppure troppo elegante per sdoganare un principio del merito sganciato dalla misura delle opportunità di partenza.
Il pasticcio è stato che a lungo questa impostazione ha accomunato politici e governi su entrambi i lati.
Quella premessa ha cercato e rinvenuto sponde in politiche pubbliche coerenti accogliendo in casa nostra le espressioni di una dottrina economica che ha esasperato le differenze di prima, ma legittimandole nella loro impostazione.
Non penso solo al pareggio di bilancio elevato a totem costituzionale.
Per capirci, nell’America di adesso una delle fratture più profonde è quella tra laureati e non laureati con Trump che conquista i due terzi degli elettori bianchi senza un diploma: tendenza già emersa in modo eguale nel voto sulla Brexit.
Ma se la destra con la sua ideologia venata da pulsioni antimoderne prevale tra i perdenti dei nuovi assetti economici e sociali, al campo progressista spetta certo la stesura di un programma alternativo, ma assieme all’opera più faticosa che è ricucire il senso di una società dell’inclusione che vuol dire la possibilità mai negata una volta e per sempre di emanciparsi dalla sfera dei bisogni primari in una dimensione collettiva.
Il punto è che per farlo serve accogliere l’idea che è tempo di rinegoziare i termini del rapporto tra capitalismo e democrazia e questa non è una prova semplice né sul piano teorico e culturale, né su quello politico e dei programmi.
Eppure, è proprio su questo sentiero con tutti i suoi ostacoli che dobbiamo incamminarci.
Con una nota finale, se volete di ottimismo: ed è che scegliendo questo piano del confronto, anche le vecchie distinzioni tra culture diverse – il cattolicesimo democratico, la tradizione socialista, le matrici dell’ambientalismo, il pensiero femminista – tutti questi affluenti si trovano davanti a uno stesso compito che è andare oltre il loro passato più o meno glorioso portandosi appresso come una pelle l’impianto dei propri valori, ma con la disponibilità a indossare su quella pelle un abito cucito sulla misura di questo tempo storico.
Mettiamola così: si tratta di passare da una stagione che ha ridotto le scelte della politica a una scienza obbligata dalle necessità (TINA: l’acronimo inglese della destra neoliberista: non c’è alternativa) al recupero di una politica che si fondi sulla capacità di negoziare in modo costante tra ciò che appare necessario e quello che si ritiene possibile.
Del resto negli ultimi anni è stato ben chiarito come ieri la pandemia e oggi le guerre suonano conferma di quanto gli eventi siano in grado di spostare la linea di confine tra le due sfere.
C’è chi dice che è come se il mondo avesse finalmente compreso quanta ragione avesse Keynes nel pieno del secondo conflitto mondiale quando diceva: “tutto ciò che possiamo fare in questo momento, possiamo permettercelo”.
Perché non dovrebbe valere oggi se davvero, per la prima volta nella nostra vita, siamo alle prese col tentativo di sovvertire dall’interno, dal vertice di Stati e governi nel cuore dell’Occidente, i principi bicentenari che hanno scolpito le nostre democrazie?
Gianni Cuperlo