De Luca, il Calcio, lo Stadio, Isola d’Arbia e dintorni

De Luca, il Calcio, lo Stadio, Isola d’Arbia e dintorni… Già, ovvero, non è mai stato facile giocare a pallone qui.

A ridosso dei giorni che i Fedelissimi hanno dedicato alla celebrazione della storica Promozione in serie A della Robur, i ricordi non possono che richiamare anche la genesi di quelli che sarebbero stati gli anni della serie A di Paolo De Luca, e sollecitano anche la necessità di sgomberare il campo dalla troppa retorica e dai racconti edulcorati al punto tale da essere mistificanti della realtà.

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La società storicamente non ha mai avuto vita facile e le varie proprietà che si sono succedute hanno sempre comunque dovuto fare i conti con problemi finanziari. All’epoca di Max Paganini ero membro del CDA per conto del Comune di Siena e non erano rose e fiori. Per essere moderati.

La svolta arriva quando il MPS diviene sponsor, prima con una sua controllata e poi direttamente, e con l’entrata in scena di Paolo De Luca. All’inizio come socio in una proprietà frastagliata – e piuttosto litigiosa – e poi, grazie all’uso della FISES come contenitore di transito, con l’acquisizione da parte di Paolo De Luca del pacchetto di maggioranza.

Ma anche sotto la guida di Paolo De Luca ci sono stati momenti di tensione e di difficoltà sotto il profilo economico e finanziario, risolti sia attraverso l’intervento della Banca, attraverso la sponsorizzazione o l’anticipo di future partite di credito, sia con il sacrificio economico anche in termini di patrimonio personale e familiare di Paolo De Luca. Chi oggi finge di dimenticarsene sa di mentire.

E per un certo periodo di tempo anche il rapporto di Paolo De Luca con la tifoseria è stato conflittuale. Ricordo un Fedelissimo in cui il Presidente era ritratto con un pesce in braccio perché in un’assemblea pubblica presso la Parrocchia di Vico Alto aveva annunciato l’acquisto di Pinga chiamandolo Tinca. Di quella cosa abbiamo poi riso per anni, ma all’inizio non l’aveva proprio mandata giù.

Paolo De Luca rimarrà alla guida del Siena per quasi 7 anni, fino a che venderà la sua quota quasi totalitaria a Giovanni Lombardi Stronati, ritirandosi già colpito dalla malattia che era divenuta aggressiva, con una ennesima situazione economica difficile, e con la consapevolezza che continuare avrebbe messo a rischio il futuro della sua famiglia.

L’ultima volta che ci siamo visti è stato in occasione di un Siena-Palermo allo stadio, in cui nel parlare della trattativa che stava tenendo con Lombardi Stronati e il MPS mi chiese se potevo dare una mano per limare gli ultimi aspetti e permettergli di chiudere senza danni questa parentesi della sua vita.

Si vergognava a farsi vedere perché i segni della malattia avevano cominciato ad essere visibili. In quella circostanza, come in altre, per quanto possibile, detti una mano assieme a Maurizio Boldrini e Fulvio Muzzi che non lo hanno mai abbandonato e , durante un incontro presso la Banca, trovammo una soluzione che, come mi disse poi telefonicamente, lo soddisfaceva.

Paolo era una persona particolare, spesso abbiamo discusso e subito dopo fatto pace, ma era un imprenditore vero e, nei primi tempi senesi, si arrabbiava moltissimo con alcuni che ne mettevano in dubbio le capacità. E avendo vissuto l’esperienza imprenditoriale dell’Interporto Campano, sapeva benissimo cosa era necessario per mantenere un livello dignitoso in un campionato di serie A: voleva creare un modello analogo a quello di realtà di dimensioni simili alla nostra che, puntando sui giovani e la loro valorizzazione e su una serie di attività collaterali a sostegno della squadra, permettessero di tenere in equilibrio il conto economico, programmare almeno a livello triennale investimenti e ritorni, e costruire una società che avesse anche solide basi patrimoniali.

Ed è attorno a questi ragionamenti che nasce l’idea dello sviluppo nella zona di Isola d’Arbia. Anche a lui sarebbe piaciuto utilizzare il Rastrello come volano economico ma, conti alla mano, sapeva che non c’era sufficiente superficie che permettesse di raggiungere un utile in grado di finanziare la parte sportiva (spazi commerciali, ricettivi, direzionali, residenziali), che comunque un recupero del Franchi avrebbe comportato la necessità di giocare altrove, e per tempi non brevi, che sarebbero comunque servite strutture sportive per allenamenti e squadre giovanili, e che le norme di sicurezza divenivano sempre più ostative al mantenimento di una stadio in quella situazione.

Inoltre sapeva bene che il bacino di utenza della nostra città è assai inferiore al break-even point necessario, e quindi bisognava puntare a rendere il progetto attrattivo per una platea di spettatori – consumatori più ampia.

Il Comune stava ragionando sullo sviluppo della città, sul piano strutturale, con incrementi possibili solo a sud, e qui si incrociarono le esigenze sportive ed urbanistiche.

Certo a lui non piaceva il progetto dello stadio che vinse il concorso di progettazione ma era tanto intelligente ed esperto in materia da sapere che lo stesso era ampiamente rivedibile quando si fosse arrivati alla fase esecutiva.

Non gli andava giù – a nessuno per la verità, neanche al sottoscritto – che non ci fosse la seconda curva ma una eventuale modifica in corso d’opera non sarebbe stata un problema. In quel luogo, inoltre, erano possibili sia le strutture a servizio dell’attività sportiva sia quelle che potevano permettere di rendere sostenibile l’operazione, attraverso un meccanismo di partnership pubblico – privato. Dire che eravamo in vantaggio di anni rispetto a progetti analoghi in Italia è perfino banale. Era stato preso in considerazione il modello della città di Bolton che aveva dimensioni paragonabili alla nostra.

Paolo De Luca era quello che si divertiva alle cene, magari a volte eccedendo specie quando non era controllato dalla moglie Paola, che cantava e saltellava con i tifosi, ma era anche uno che se doveva pensare in termini imprenditoriali lo sapeva e lo poteva fare.

E aveva anche la capacità di calarsi nel contesto perché sapeva che ci sarebbero voluti diversi anni, e quindi risorse finanziarie che permettessero di attendere la messa a reddito delle varie attività, sapeva bene che il progetto avrebbe portato benefici economici ed occupazione per la città e per le imprese del territorio che sarebbero state coinvolte.

Questa è la storia reale di quella progettualità e, anche se oggi alcuni temi sono cambiati e le dimensioni che dobbiamo affrontare sono completamente diverse, le riflessioni di fondo rimangono valide. Ed i numeri, che poi sono quelli che rendono possibile un progetto, rimangono essenziali per determinare la fattibilità.

Oggi si dibatte sull’ennesima crisi della società che, dopo il passaggio da Lombardi Stronati a Mezzaroma nel gennaio del 2010, ha conosciuto successivamente l’onta del fallimento e ripartenze dalla serie dilettanti, sfiorando però perfino la promozione in serie B per poi ripiombare nel baratro. Puntualmente si leggono anche idee di azionariato popolare, ma sinceramente non crediamo che tale soluzione rappresenti una prospettiva reale. Anche qui si ragiona di massa critica di persone disponibili a spendere quasi a fondo perduto (ci sono debiti da ripianare e un campionato da fare). Sicuramente le ultime proprietà sono state deludenti ma su questo tema i tifosi sono stati chiari.

In una fase precedente anche io lanciai la proposta di un azionariato popolare per sostenere la società e, a parte il fatto che nonostante appelli e un’assemblea pubblica nella Sala delle Lupe, il risultato fu forse sufficiente a noleggiare un autobus per una trasferta e neanche tanto lontano, mi beccai una denuncia “anonima” da parte di consiglieri comunali di opposizione e fui processato alla CONSOB a Milano.

Il procedimento durò poco perché quando capirono che non potevo rastrellare azioni perché la società non ne aveva, si resero conto, anche con un certo imbarazzo, che avevamo tutti perso tempo.

A proposito di bene comune e di opposizione corretta… Le forme di azionariato popolare hanno successo laddove esistano numeri sufficienti e anche una tradizione, tipo le public company, il modello Barcellona, ma si capisce che la pedalata è lunga davvero.

Diverso è se si individuasse un nucleo di imprenditori locali che, sul modello della compagine precedente De Luca, fosse in grado di ripartire con l’obbiettivo primario di strutturare una società e poi puntare a conseguire risultati sportivi. Quando cresci, e riesci ad affermarti, è più probabile che vi siano imprenditori in grado di raccogliere il testimone per alzare l’asticella.

Fermo restando che il ruolo di BMPS non può essere quello del passato, mi chiedo se comunque non sia possibile che nel reperire imprenditori ci sia una sorta di expertise che potrebbe essere messo al servizio del Comune e della società.

Si riparta dal Comune in ultima analisi, il Sindaco (foto sopra) si intesti il titolo sportivo e provveda ad avviare tali ricerche e riflessioni, se si deve ripartire dal basso lo si faccia con una pulizia e con la garanzia di non incappare in nuove avventure disgraziate. Meglio una serie in meno ma una garanzia in più.

Certo è che il Sindaco dovrebbe esercitare una sorta di “moral suasion” verso l’attuale proprietà perché si faccia da parte oppure rispetti gli impegni assunti e forse con la novità scaturita dalle elezioni potrebbe essere più semplice dialogare, non scontando le scorie accumulate nel lungo contenzioso. E si provveda poi almeno a fare i lavori indifferibili allo stadio.

Le strade non sono semplici ma nemmeno molte, a meno che qualcuno non abbia in mano la carta vincente… Se così, allora che la tiri fuori adesso, altrimenti sarà tardi.

Maurizio Cenni

(Le foto pubblicate sono foto pubbliche di FB)

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