Donne, il diritto alla vita è un principio, non un’armatura

Prime fra tutti sono le vittime che devono saper riconoscere i segni che possono portare al femminicidio

Femminicidio: se non volete diventare un paio di scarpette rosse, imparate per il momento a riconoscere le zone rosse. Ogni volta che una donna viene uccisa da un uomo, parte il riflesso automatico per tre o quattro giorni: cortei, talk show, fiaccolate, indignazione digitale, tutti rituali già visti.

Tutto giusto, tutto previsto. Ma il numero dei femminicidi, da venticinque anni, non cambia. Antecedentemente i dati non sembrano attendibili.

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Le leggi ci sono. Il senso comune è cambiato. La sensibilità collettiva è cresciuta. Ma i morti restano. Mi pare l’unica cosa che conta.

Forse è il momento di guardare altrove. O meglio: più in profondità. Parlo da clinico. Ho cominciato come clinico, oggi mi occupo di sport. E no, non è così distante come sembra. Anche nello sport, come nella clinica, si lavora sulle emozioni: riconoscerle, gestirle, contenerle o trasformarle.

Un clinico, e per fortuna sono di estrazione medica, non fa morale, non giudica, non ideologizza. Osserva i fenomeni – patologici e non – e, per quelli pericolosi, cerca strategie. Non si limita a dire “non dovrebbe succedere”. Si chiede: “Come evitiamo che succeda?”
Ogni cambiamento nella vita delle persone – che sia un inizio o una fine di qualcosa – è un momento di instabilità.

Le relazioni, quando finiscono, possono diventare pericolose se l’altra parte è disturbata, narcisista, immatura, fragile. E lì, si entra nella zona rossa.

Non servono mostri. Basta un uomo incapace di tollerare il rifiuto. Un uomo che vive la separazione come perdita totale di sé. Vittorino Andreoli, nel suo libro Voglia d’ammazzare, lo dice con chiarezza: “l’impulso a uccidere è presente in ogni essere umano. È una pulsione biologica, naturale. Ma ciò che ci rende civili è la capacità di contenerla: freni inibitori, principi etici, educazione emotiva”.

Quando questi filtri si spezzano – a causa di fragilità interiori o di altro – si può sprofondare nella barbarie. Lo stesso messaggio arriva da Konrad Lorenz, nel suo testo classico Il cosiddetto male.

Lorenz spiega che, a differenza degli animali, l’uomo non possiede meccanismi biologici innati per inibire l’aggressività verso i propri simili. Anzi, l’evoluzione culturale – molto più veloce di quella biologica – ha amplificato l’aggressività umana senza averla bilanciata con freni adeguati.

Risultato? L’uomo può uccidere non per fame o sopravvivenza, ma per frustrazione, per rabbia, per squilibrio interno. È l’unico animale che lo fa. E allora serve smettere di pensare che basti l’educazione sentimentale, o il rispetto, o la cultura di genere.

Tutto utile, forse.. Ma non basta. Negli Stati Uniti, nelle scuole più difficili – raccontate da Paul Tough in Whatever It Takes – si lavora in modo molto pratico: si insegna ai bambini a riconoscere la rabbia, a contenerla, a non esserne schiavi.

È un addestramento alla vita reale, alla gestione delle emozioni.

Noi non abbiamo Harlem, ma abbiamo le nostre periferie, le nostre individualità, le nostre fragilità. E possiamo – dobbiamo – fare lo stesso anche qui. Per gli uomini e per le donne. Ed eccoci al punto centrale, il più scomodo da dire ma il più urgente da capire: le donne non devono essere uccise. Ma questo non significa che non lo saranno.

Il diritto alla vita è un principio, non un’armatura. Non sto dando colpa alle donne e lo preciso perché i poco intelligenti abbondano. Nessuna colpa nel subire la violenza.
Ma riconoscere il pericolo è un dovere condiviso.

Sapere leggere i segnali: isolamento, ossessione, controllo, minaccia velata. Capire quando si entra in una zona rossa. E uscirne, subito.

Ero in motorino. Venivo da destra. Avevo la precedenza. Un camion veniva da sinistra. Avevo ragione. Ma sono morto lo stesso. Questo è il femminicidio: avere ragione, ma trovarsi nella traiettoria sbagliata.

E allora sì, educhiamo gli uomini. Ma prepariamo seriamente anche le donne a salvarsi perché i diritti non paiono sufficienti ad evitare le cose. Sul serio. Come lo zainetto da 72 ore consigliato dall’Unione Europea in caso di guerra.

Surreale? Forse ma non ne parliamo qui. Ma lo zainetto per riconoscere dove essere e quando è meno surreale di morire perché “non doveva succedere”. Meglio un kit mentale, emotivo, psicologico.

Meglio riconoscere le zone rosse, che diventare l’ultimo paio di scarpette rosse.

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