Duccio, viaggiatore che la moto la spinge

Aggiungiamo il direttore di SienaPost tra le nostre selezioni: ha due racconti africani per noi

Ci vediamo da Duccio Rugani per parlare del futuro di SienaPost. Non è la mia professione quella di giornalista, ma sarò con loro fintantoché con onesta intellettuale desidereranno e perseguiranno lo sviluppo della nostra città. E mi sento coinvolto in ragione dei venti euro associativi che verso e per il fatto che da quando ho aderito scrivo e dico quel che mi pare.

Ci accoglie a un tavolo di casa anche se siamo in ufficio, intorno ci sono sedie impagliate, un server, un nas e foto, tante foto, soprattutto volti africani e qualche sfondo inconfondibile come quello del Kilimanjaro, l’unica montagna cava, innevata, di quel continente.

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Duccio Rugani al lago di Nakuru. La striscia rosa in basso sono svariate migliaia di fenicotteri rosa

Dai Duccio, allora anche tu sei un viaggiatore… – Gli dico con tono sorpreso -. Magari se hai dei racconti ti includo nella mia rubrica con tanto di intervista… E lì sapevo di andare sul sicuro perché lui ha sempre scritto di tutto.

“I racconti ce li ho – mi risponde -, mi sentirei tanto, ma proprio tanto, onorato di esser mischiato fra gli autori della tua rubrica e per l’intervista d’accordo, ma riuscirai a essere sufficientemente pungente? Perché la malizia raddoppia il valore delle risposte! Ricordalo”.

Sorrido e la cosa finisce lì, qualche giorno dopo mi fa pervenire qualche suo scritto. Due più di altri li ritengo degni di pubblicazione in futuro sulla mia rubrica e quindi mi preparo qualche domanda da fargli… Quello che segue è il risultato…

Allora definiamo all’inizio se sei un viaggiatore. Se sei stato a Sharm o Miami non vale, devi avere avuto uno scambio di qualche genere con una cultura locale…

“Sì, è stato così. Almeno tutte e quattro le volte che sono stato in Africa. Quando ho fotografato il Kilimanjaro ero nel parco di Masai Mara, in Kenya, ma era una “distrazione”, il più delle volte sono stato a conoscere i progetti di cooperazione decentrata. All’inizio ho accompagnato dei cari amici, medici del nostro ospedale, Barbara e Stefano e le loro belle figlie. Erano bambine ed oggi sono rispettivamente un avvocato e un architetto, immagina un po’. Molto poteva esser raccontato e documentato: i medici in genere salvano vite e non pensano al resto. Ma il resto, sempre in genere, sono sovvenzioni e aiuti economici. Scrissi allora anche quei racconti che ti ho dato, poi il mal d’Africa mi ha colpito. Mi dissero che funziona così alcuni amici di Trento che avevano deciso di vivere lì tre anni… Vedi l’Africa e subito ci scriveresti un libro, la vedi ancora e terresti un diario, continui a vederla e convivere supera d’importanza il descrivere. Il timore che ho nel darti questi racconti è che abbiano contenuti troppo elevati di giudizio da occidentale. Lì il modo di pensare è diverso”.

Beh, hai tempo e modo di spiegarti. Uno degli scritti scelti si chiama “Soggiorno al Saint Martin”, dov’eri, cosa facevi, chi meritava di esser descritto?

“Ah, quella è tanta roba. Siamo in Kenya a Nyahururu fra le province di Nyandarua e Laikipia. La locale diocesi allora aveva un vescovo italiano ed era sorretta dalle parrocchie padovane. In più c’era un eccezionale prete missionario – Gabriele Pipinato -, noto anche al social forum di Porto Alegre. Già da tempo, tramite il Cuamm cioè Collegio universitario aspiranti medici e missionari, era in atto un continuo invio di ragazzi in prevalenza veneti che si inserivano – mai in posizione di leadership – nei vari progetti community based del Saint Martin, che era una sorta di sodalizio laico che agiva su svariate emergenze sociali. Quella di cui i miei amici Barbara e Stefano erano responsabili sanitari riguardava il sostegno ai giovani disabili. Fino all’arrivo di Pipinato essi venivano negati, ma la sua insistenza consentì l’assistenza a milleottocento di essi; si andava dall’insegnamento delle tecniche riabilitative al supporto alle nurse tribali, a interventi correttivi, quando possibili, o misure di economia sociale e formazione professionale. Eravamo in una società che viveva in molti casi miseramente, ma i giovani che ricevevano un’opportunità sapevano farne tesoro”.

Strade africane, anzi highway, verso la Rift Valley nei pressi di Nieri

Senti, nel racconto parli di motorette, quindi oltre che viaggiatore ti si può mettere tra i motociclisti… ?

“Quando mai!? Mio padre non mi fece mai montare in moto perché per lui con il mio sovrappeso ero inadatto con la conseguenza che ho fatto cose turche con un Ciao che ogni volta che smontavo mi avanzava qualcosa rimontandolo. E appena patentato distrussi la mia prima auto. In moto sono rimontato, perché era l’unico mezzo per spostarsi, a Ougadougou, in Burkina, molti anni dopo, ma nel giro di una settimana ero diventato una barzelletta per tutti gli street children che andammo a visitare. Ero quello che spingeva la moto invece che salirci. Mi piace camminare, però… Vale lo stesso?”

Fermata ad Archer’s Point
Il frontone della chiesa cattolica di Isiolo

Sì sì, nel tuo caso vale, in fondo il direttore può… Ci è piaciuto anche l’altro racconto che hai chiamato “Cenerentola di strada”. Tutto vero quello di cui parli?

“Tutto vero, non so. Mentre il Saint Martin è un resoconto, la storia di Mercy è liberamente ispirata a cose che comunque ho visto davvero. Insomma, purtroppo c’è anche di peggio. Fu la seconda volta che andai in Kenya che conobbi i Turkana e i Samburu, popoli nomadi, ritenuti inferiori dalle etnie dominanti. Visitammo l’ospedale di Wamba, molto più a nord, nella Rift Valley. Lo aveva fondato e gestiva Silvio Prandoni, medico di Castellanza, rotariano che, nel niente, era riuscito addirittura a preparare da sé l’80 per cento dei farmaci. Per raggiungerlo si passava da brutte zone, Isiolo e Archer’s Point, vicino alla frontiera somala, con continui transiti di miliziani armati. A Isiolo, in un territorio a fortissima prevalenza mussulmana, sulla Chiesa c’era rappresentato un dio che sembrava incutere il timore di piaghe e apocalisse, quasi un’icona di protezione; proprio in quella chiesa, due anni dopo, venne sparato e ucciso Luigi Locati, un religioso di Vercelli. A Wamba c’era un diverso rapporto, l’ospedale era laico e gli autoctoni ne conoscevano l’importanza, ma tutto era iniziato con una fregatura. Proprio a noi occidentali che sappiamo tutto. Quando venne venduto il terreno del nuovo ospedale i lavori duravano solo pochissime ore al giorno: agli amici di Prandoni fu ceduta la striscia di passo degli elefanti per l’abbeveramento che quindi attaccavano gli operai se li trovavano al lavoro. E tra gli altri problemi, di tutto un po’: i serpenti neanche a contarli, la leonessa che decise di sedersi mezza giornata davanti la Sala operatoria invece destò qualche impressione. Solo qualche chilometro più a nord c’era il Lago Rudolph, dove si asserisce che l’umanità sia nata”.

La dottoressa Barbara fa ambulatorio nel prato
Quello che non si insegna, si raffigura: parte di un murales che indica le terapie per la riabilitazione

Che cosa hai imparato nei tuoi viaggi e come mai non ne fai altri?

“Non ne faccio altri perché non mi ritengo sufficientemente in buona salute. Ammalarmi mentre sono in Tanzania piuttosto che Costa d’Avorio, altri due Paesi che conosco, sarebbe un problema per chi mi accoglie e basta. Non bisogna andare là con la presunzione di essere risolutivi, non lo siamo proprio per niente, innanzitutto perché quello che siamo disposti a dare è in genere limitato e sporadico mentre le necessità sono illimitate e perenni, in secondo luogo a fronte di una vita che nelle nostre campagne si faceva prima o dopo il primo conflitto mondiale siamo impreparati. Finisce per diventare una sfida anche andare al gabinetto tutti i giorni. Però, in comunità quasi sempre ospitali e accoglienti, la visita, l’incontro, la condivisione, le poche parole che si possono scambiare, sono importanti e spingono la gente del luogo a pensare più in grande. Poi ti prendono molto sul serio: una volta, richiestomi, feci una testimonianza alla riunione del villaggio e l’indomani seppi che in conseguenza di quanto avevo detto una donna era stata arrestata. Mai me lo sarei immaginato. Chiaramente tutto questo avviene finché mostriamo rispetto. Sai in Kenya, ogni giorno c’era l’alzabandiera e l’ammainabandiera, se passavi in piazza e non ti fermavi fino a conclusione della cerimonia andavi in carcere fino l’indomani”.

Il dottor Silvio Prandoni, quando lo conoscemmo. Un grand’uomo. Tanti anni fa…

Ci parlavi di un giudizio da occidentale e di mentalità che non ci appartengono… Spiegati.

“I nostri principi sono largamente condivisi. La dichiarazione universale dei diritti umani non è materia di confronto e scambio. Ma diverso è il radicamento di questi principi. Almeno in una parte dell’Africa, dato che di quella si parla, ci sono ancora logiche tribali. La responsabilità avvertita è in considerazione del “compound”… Avete presente quell’ammasso di sterpi e rovi intorno a più capanne per impedire l’avvicinamento delle fiere? Ecco quello è il circolo di responsabilità di base; un uomo, più raramente una donna, di potere, deve tener presente che nella gestione della cosa pubblica quelli del suo “compound” si aspetteranno di ricevere, perché quella è la regola. Anche se noi la chiamiamo corruzione. Non ci sono in Africa ad esempio kenyani, o ugandesi o tanzaniani; ci sono invece i luo, i masai, gli zulu, i kikkuiu, i kalenjin e poi i boscimani, gli hutu, i karamoja, i tutsi, i warangi, i vatussi e cento altri ancora… E quando le potenze straniere si sono decise a concedere l’indipendenza alle ex colonie in territori demograficamente parcellizzati ci sono stati governanti che, similmente all’Unione Sovietica, hanno pensato di risolvere i problemi di statalismo delocalizzando e mischiando le tribu. Non sempre facendo bene. Nel rapporto fra noi e le popolazioni autoctone pesa poi terribilmente, soprattutto se siamo viaggiatori poco più che vacanzieri, il peso di una colpa colonialista che noi accettiamo per ignoranza e chi ce la mette addosso lo fa per calcolo. Insomma sono molte cose, quindi come sempre un incontro va gestito con fiducia e conoscenza e i giudizi vanno sospesi finché verificati”.

La pediatria dell’ospedale di Wamba

Sono cose che hai scritto molti anni fa, saranno ancora così?

“Ho gironzolato su internet e credo di aver compreso che alcune cose non sono cambiate. Probabilmente ad alcuni problemi se ne sono sostituiti altri. Probabilmente l’ormai diffusa telefonia mobile ha contribuito a render chiari gli allarmi più gravi. C’è pride, orgoglio, c’è convinzione nella buona istruzione che resta però estremamente competitiva; c’è la campagna che è un po’ al di sopra dell’autosufficienza e vive logiche patriarcali e c’è il miraggio delle metropoli dell’illusoria libertà che aumentano lo strappo sociale e creano la vera miseria per chi non ha la fortuna di centrare il proprio obbiettivo. Quando ero là, tuttavia il “goal” di un ragazzo di campagna era “voglio partire perché chi è partito ha fatto fortuna” o… si dice che abbia fatto fortuna perché non si sente più parlare di lui. E magari è montato su un barcone senza più scenderne. Sono insomma azzardi spericolati tra le diseguaglianze sociali che fanno parte del problema e non della soluzione”.

Salutiamo Duccio, e magari più in qua metteremo i suoi racconti.

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