Emilio Radice, l’uomo e il viaggiatore

Dalla Toscana all’Asia: radici, viaggi e riflessioni

Ho conosciuto Emilio Radice durante un meeting di MTS, il Moto Travel Summit. La prima cosa che mi ha colpito è stata la sua voce: calma, con quel vago accento romano che ti rassicura, come il tono di un vecchio amico o di un nonno che ha sempre un consiglio pronto. Parlare con lui è come aprire una porta su un mondo pieno di storie, vissute e raccontate con la sapienza di chi ha passato una vita osservando e narrando la realtà.

Giornalista di lungo corso, Emilio ha raccontato per molti anni storie di cronaca nera, spesso in sella alla sua moto, che lo portava sul luogo dei fatti, a volte persino prima delle autorità. Ma è stato nei viaggi, quelli veri, che la moto è diventata qualcosa di più di un semplice mezzo di trasporto: è diventata una compagna che amplifica i sensi, che costringe a fermarsi, a riflettere e a stabilire connessioni profonde. Emilio racconta di come, percorrendo chilometri in solitaria attraverso paesi come la Turchia, l’Iran e l’Afghanistan, abbia trovato non solo il mondo, ma anche una parte di sé.

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Per Emilio, il cuore del viaggio è l’incontro umano. Stabilire un contatto, un dialogo, un’intesa, anche quando la lingua è un ostacolo, è ciò che dà senso al suo viaggiare. È questa apertura, questo desiderio di scoprire e capire l’altro, che trasforma i suoi itinerari in storie vive, dense di umanità e significato.

Afghanistan

Parlando con lui, ho scoperto che le sue radici affondano anche in Toscana, nella Maremma e a Giuncarico. Non so se siano luoghi d’infanzia o di vita successiva, ma è evidente che quei paesaggi hanno lasciato un segno profondo nel suo immaginario. È facile immaginare un legame tra quelle terre e la sua capacità di intrecciare storie con una visione così ricca e poetica.

Con Emilio, ogni chiacchierata è un viaggio: dalla sua Maremma alle strade polverose dell’Asia Centrale, intreccia ricordi d’infanzia, riflessioni culturali e aneddoti di percorsi remoti. È per questo che sono felice di condividere con voi questa intervista: non solo per parlare di moto, ma per esplorare quello che succede quando il rombo del motore ti porta oltre il confine, verso nuovi incontri e nuove scoperte.

Le radici toscane

Emilio, mi hai raccontato di avere radici in Toscana, se ricordo bene. Cosa rappresentano la Maremma e Giuncarico per te? Che ricordi porti con te di quei paesaggi e delle persone che li abitano? Sono stati un punto di partenza per la tua passione per le storie e i viaggi?

“Giuncarico è il paese di mia nonna, di mia mamma e di mio nonno, ovviamente dalla parte materna. Ho passato molto tempo lì, tra campagna e tradizioni. Era una campagna incontaminata, lo era allora e lo è ancora oggi in buona parte. Giuncarico è un posto particolare: un balcone stupendo sulla Maremma, proprio di fronte a Vetulonia. È uno di quei luoghi che ti fanno sentire immerso nella vera Toscana.

I miei primi contatti con il mondo della moto sono nati proprio lì. Mi ricordo che quando arrivavo col treno da Roma per andare da mia nonna, c’era una sola macchina nel paese: quella di Rizieri. Lui aveva una vecchia Fiat 1100, di quelle con i fanali fuori, e faceva il meccanico. Nella sua officina vendeva anche motorini. Io passavo ore lì, a guardare quei motorini, sognando di averne uno. Rizieri era il marito di Cleofe… pensa, questi nomi toscani così belli!

Il mio primo viaggio in moto è legato proprio alla Toscana. Avevo sedici anni e uno Stornello 125. Per la prima volta mi sono messo in strada da Roma a Giuncarico, sulla vecchia Aurelia. Era un viaggio vero, un’avventura. La sensazione più forte che ricordo è il momento in cui facevo il pieno: con mille lire riempivo il serbatoio di benzina. Il serbatoio di metallo diventava freddo e vibrava leggermente, e quella vibrazione mi faceva sentire potente. Avevo tutto davanti a me, e con quel 125 ho raggiunto Giuncarico. È un ricordo che porto ancora nel cuore”.

Emilio Radice in Afghanistan

La moto come compagna di viaggio

Una volta mi hai raccontato che la moto è stata una parte fondamentale della tua carriera, prima come mezzo per inseguire le notizie e poi per viaggiare. Come è cambiato il tuo rapporto con la moto nel tempo? Come pensi che la moto abbia cambiato il tuo modo di vivere e raccontare il mondo?

“Beh sì, la moto è stata fondamentale perché mi dava una velocità e una libertà di movimento difficili da trovare con altri mezzi. In genere, i giornalisti, soprattutto allora, si consideravano personaggi un po’ paludati: andavano in giro con l’auto, l’autista e il fotografo. Io invece dicevo al fotografo: ‘Ci vediamo là’. E partivo in moto da solo. Per me era essenziale arrivare sul posto il prima possibile, quando i fatti erano ancora ‘vergini’, quando il luogo non era stato toccato dalla mediazione delle autorità o dei colleghi.

La moto mi permetteva di arrivare prima, spesso in situazioni drammatiche, soprattutto durante gli anni del terrorismo. Ricordo un episodio del 1985, l’attentato a Fiumicino: avevo sentito gli elicotteri alzarsi in volo a Roma e mi ero chiesto cosa stesse succedendo. Quando ho capito, ho preso la moto e sono volato all’aeroporto. Sono arrivato talmente presto che sono entrato insieme alla polizia, senza che controllassero i documenti. Per loro ero uno di loro. Tutti i giornalisti arrivati dopo sono stati bloccati, ma io mi sono ritrovato direttamente sulla scena della strage: pallottole a terra, hostess accasciate che piangevano, e purtroppo anche i morti. È stata un’esperienza terribile, ma mi ha insegnato quanto fosse potente la moto come strumento per arrivare prima e raccontare i fatti con autenticità.

La moto, però, non era solo velocità. Mi rendeva una persona più semplice, più vicina alla gente. Non arrivavo con la macchina blu del ‘grande giornalista’, ma con il casco sotto il braccio, come chiunque altro. Questo mi rendeva più accettabile, più accessibile per le persone con cui dovevo parlare, che spesso stavano vivendo momenti di dolore. Questo vale anche per i viaggi: arrivare in moto ti mette allo stesso livello delle persone che incontri. È un modo di essere parte del mondo, non sopra di esso”.

Emilio Radice

L’instabilità che ispira

Intanto ci hai dato un grande specchio di quello che è stata la tua vita. Ma torniamo sul pezzo: una volta mi hai detto che la moto è instabile per sua natura e che spesso ti costringe a fermarti per mettere ordine nei pensieri. Ti va di raccontarmi un momento in cui proprio questa instabilità ti ha portato a riflettere o a vedere le cose sotto una luce diversa?

“Quando guidi una motocicletta, nel casco succede qualcosa di simile a quello che accade durante i sogni. È un incrocio continuo di pensieri e sollecitazioni. Guidare è come guardare la realtà attraverso un caleidoscopio: si incrociano sensazioni con un’intensità incredibile. Ci sono colori, odori, venti che ti accarezzano o ti spingono, prospettive che si aprono improvvisamente alla prima curva, aspettative che ti solleticano o timori che ti frenano. Tutti questi elementi si fondono e vengono elaborati dal cervello, creando fantasie, idee, persino melodie o spunti di canzoni. È un flusso che nasce e scorre dentro di te, alimentato dal continuo rinnovarsi degli equilibri del tuo andare.

Ma se non ti fermi, se non annoti queste idee, rischi di perderle, proprio come succede con i sogni. Se non le scrivi subito su un pezzo di carta o sul telefono, svaniscono, esattamente come un sogno che si dissolve al mattino.

Mi viene in mente un’esperienza di molti anni fa con un folle maestro di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Faceva un concorso: premiava con un suo quadro chi gli portava il sogno più bello. Io gli dissi: ‘Ma come si fa a ricordare un sogno?’ E lui rispose: ‘Se vuoi, il sogno lo ricordi. Basta che ti imponi di farlo. Metti un foglio e una penna accanto al letto e ordina al tuo cervello di svegliarti per ricordarlo’. E aveva ragione: se ti imponi di ricordare i sogni, riesci a farlo. Ma se non ci provi, svaniscono nel nulla, e magari nemmeno ti rendi conto di aver sognato.

In moto succede lo stesso. Ci sono momenti in cui mi vengono in mente brani musicali o melodie che non so da dove nascano, e mi rendo conto che appartengono a mondi o periodi della mia vita che avevo dimenticato. È una componente importante dei miei viaggi ritrovare questa parte di me. E’ una cosa che cerco: fermare ciò che la mente, bombardata da una serie infinita di impulsi, crea in movimento. Ed è anche il principale motivo per cui preferisco viaggiare da solo”.

In Albania la fatica dei pescatori per tirare a riva le reti

Il valore del ritorno

Senti, una curiosità: quel famoso taccuino di cui si parlava prima, ti capita mai di riguardarlo? C’è una frase o un pensiero che hai appuntato e che ancora oggi ti ispira? Ti capita mai di rileggere quegli appunti e riscoprire qualcosa che magari, in quel momento, non avevi colto del tutto?

“Mi capita spesso, e a volte lo faccio con un certo calcolo. Io sono uno che torna nei posti, perché ogni viaggio non è mai uguale a sé stesso. Anzi, un viaggio ripetuto, che ti porta negli stessi incroci, può rivelarsi ancora più denso e ricco di quello precedente. Succede perché, in certi mondi, il ritorno non è visto come una semplice visita: è il ritorno di un fratello. Tu ti sei ricordato di loro, e questo ha un peso enorme.

Quando so che tornerò in un luogo, carico sul telefono, o a volte stampo, le immagini delle persone che avevo fotografato negli anni passati e gliele porto. È una cosa semplice, ma quando succede è una scoperta meravigliosa. A quel punto le case si aprono, perché sei uno che ha pensato a loro, che non li ha dimenticati. Magari gli dai la foto di un bambino che intanto è cresciuto, e per loro questo significa tutto. A quel punto sei fratello, sei parte della famiglia.

Ho vissuto situazioni incredibili, come delle vere e proprie cerimonie: ci si metteva in cerchio, con le mani sulle spalle, e venivano pronunciate parole nella loro lingua, che io non capivo. Alla fine di quelle parole ero considerato un membro della loro famiglia. Questo mi ha dato la possibilità di vedere una realtà che di solito resta nascosta agli estranei. Sono stato ammesso all’interno e ho visto cose straordinarie.

Ad esempio, ho assistito nell’oasi di Bam alla preparazione di una cerimonia di nozze. Le donne, che normalmente vediamo tutte coperte, dentro casa si pettinavano davanti a me, si tingevano le unghie, e parlavano dei loro problemi. Mi raccontavano dei mariti che non avevano lavoro, o che stavano troppo fuori casa e trascuravano i bambini. Si sfogavano con me, e io rimanevo meravigliato da quel mondo femminile che si apriva così, con naturalezza.

Penso che questo sia anche legato al fatto che, essendo diventato più anziano, mi vedono come “Baba”, un papà, e i bambini nella loro lingua mi chiamano “Noun”, zio. Uno di loro ha voluto che partecipassi alla festa dei suoi dieci anni a scuola. Ecco, tutto questo succede se torni nei luoghi.

Conosco persone che tendono a escludere certi posti, dicendo: ‘Lì ci sono già stato, non ha senso tornarci’. Io, invece, credo che tornare sia fondamentale. Alcuni luoghi meritano più di una visita, e ogni ritorno ti dà qualcosa di nuovo, anche perché sei tu stesso cambiato”.

La lezione degli studi classici

Prima abbiamo parlato di scuola. Dimmi, i tuoi studi classici ti hanno aiutato a intrecciare storia e geografia nei tuoi viaggi? Puoi raccontarmi come questo bagaglio culturale ti ha guidato nelle strade che hai percorso e nelle storie che hai cercato?

“Assolutamente sì. Una grande lezione in questo senso me la diede mio padre, quando aveva già 90 anni. Stavo per partire per il mio primo viaggio in Iran. Glielo dissi e lui si accese: ‘Bello, bello… aspetta, ti do un libro che forse ti potrà aiutare’. Andò nella sua libreria e tornò con un volume: l’ Anabasi di Senofonte. Per lui, che apparteneva a una cultura dei primi del Novecento, era una guida, la sua Lonely Planet. Sapevo dell’Anabasi ma non l’avevo mai letta. Lo feci prima del viaggio e arricchì profondamente la mia esperienza, aggiungendo al mio itinerario suggestioni che non avrei mai immaginato.

Emilio Radice in Iran

Ad esempio, ritrovare nomi come Sinop sulla costa turca del Mar Nero o Trabzon, percorrendo le strade che furono battute dalla spedizione di mercenari greci di Senofonte… beh, è stato incredibile. Mi trovavo davvero sui percorsi della storia classica, sui luoghi narrati in un testo di cui prima avevo solo vaghe nozioni scolastiche. Era come camminare dentro un libro di storia, un volume che da allora conservo come una cosa preziosa.

Questo mi ha fatto capire quanto importante sia la consapevolezza culturale dei luoghi che visiti. Noi a scuola studiamo le guerre tra Greci e Persiani come un semplice dato, ma viaggiare su quelle terre ti fa percepire che c’era un rapporto diretto fra noi e i Persiani, prima dell’arrivo dei Turchi, popoli nomadi discesi dalle steppe centroasiatiche molti secoli dopo. Ad esempio, in Persia o in Asia Centrale, se dici che vieni dall’Italia, non sempre fa effetto. Ma se dici proprio ‘Roma’, vedi che negli occhi delle persone si accendono echi, luci, bagliori. Per loro Roma è un polo fondamentale delle antiche vie carovaniere. Era uno dei due estremi della Via della Seta, che collegava l’impero cinese a quello romano. Tutto passava da lì: merci, cultura, informazioni… persino le malattie. È suggestivo percepire che quell’eco, quel ricordo, esiste ancora.

E poi ci sono momenti come quando arrivi a Pasargade, davanti alla tomba di Ciro il Grande. Lì vedi il sarcofago con il buco che Alessandro Magno vi fece in segno di disprezzo verso il nemico storico dei Greci. E ti immagini Alessandro proprio lì, ‘che quasi gli dici ‘Che fai?’, ci sei dentro, a pochi metri da una Storia vivente. È entusiasmante.

Essere consapevoli dei luoghi che visiti, anche culturalmente, dà al viaggio un’altra dimensione. Non sei solo uno spettatore: sei parte di un filo che collega il passato al presente. Ed è una sensazione che non ha prezzo”.

Questa prima parte ci porta a scoprire le radici, la vita e i pensieri di Emilio Radice: un viaggiatore che attraverso la moto trova ispirazione, riflessione e connessione. Nella prossima parte esploreremo le sue avventure più straordinarie e le lezioni che ha appreso viaggiando.

(1 – continua)

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