Georgia, l’attesa della morte nelle cripte

Quarta e ultima parte del racconto “Come un Lupo”. Nella prima parte, il protagonista, David Abashidze, qualcosa a metà fra un cartografo e un amanuense, avatar dell’autore Luca Gentili, ha affrontato le aspre montagne caucasiche alla ricerca di un passaggio a Sud… Trovandolo. Nella seconda parte si è trovato al cospetto di una tribù, misconosciuta e bellicosa, gli Svan e da essi è stato accolto e sostenuto. Ma annunciandosi segnali di guerra è dovuto andare via, per ributtarsi nell’aspra e incontaminata natura delle montagne. Ora, a conclusione della terza parte, quando un favo di miele gli vale un’amicizia importante, deve tornare alla civiltà dove lo attende una drammatica scoperta…

Come un Lupo – Anatori

(…) più volte mi ripeté: “Anatori akhyrta Vakhtang,” battendosi la mano sul cuore.

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4: დ (doni) – Compresi che quello era il nome del suo villaggio, e forse voleva far sapere ai suoi congiunti che lo avevo incontrato, che avevo incontrato Vakhtang. Ed era proprio Anatori che, con questa raccomandazione verbale, avrei tentato di raggiungere.

Avevo imparato a misurare il tempo leggendo l’ombra che il mio cavallo proiettava al suolo. Certo, non potevo conoscere l’ora esatta, ma a me serviva solo capire se fossi nel mezzo del giorno o se si avvicinava il tramonto e dovevo cercare un rifugio.

Mentre scendevo dal passo, ripensavo a Vakhtang, a quando, dopo aver agitato le mani nell’aria per indicarmi le curve e le profonde valli, mi mostrava sempre il numero quattro. Penso che, con quelle quattro dita rivolte al cielo, volesse indicarmi i giorni di cammino, la quantità di strada che avrei dovuto percorrere.

Il sentiero scendeva costeggiando un fiume. Grandi pietre erano rotolate dalla costa, e più volte sono dovuto scendere per condurre il cavallo con le briglie in mano. Un paio di forti temporali estivi avevano reso impossibile attraversare il fiume: il torrente, alimentato da piccoli affluenti, ribolliva trascinando a valle tronchi e detriti.

Caparbiamente cercavo di proseguire, non tanto per raggiungere il villaggio, ma perché mi stavo convincendo che questa strada mi avrebbe portato verso la Dzurdzuketia e poi giù nelle pianure del Terek e al Mare Albanum, cioè verso l’Asia.

Con questa convinzione che mi roteava nella testa, mi avventuravo verso valle. Al quarto giorno, vicino a un campo di samghvini (19), ho visto degli animali bradi. Strano non vedere alcuno che se ne occupi. C’era qualcosa che non capivo, che mi rendeva sospettoso e guardingo. Camminavo accanto al cavallo, me ne facevo scudo, poi, poco sopra un’ansa del fiume, un villaggio fortificato mi ha quasi sorpreso.

Le case di pietra avevano lo stesso colore della montagna: addossate le une alle altre, formavano una specie di bastione, non una fortezza, ma un agglomerato. Aggrappate al costone, sollevate di qualche decina di metri dal fondovalle, le abitazioni erano un tutt’uno con la costa scoscesa della montagna, e le torri, piazzate nel mezzo, dall’alto vigilavano su chiunque avesse voluto passare nel fondovalle. Un bravo arciere avrebbe potuto tenere fermo un esercito sul fondo della gola.

Mentre, fermo vicino alle mura, cercavo di capire il perché di tale silenzio, da un pertugio vidi uscire un uomo, la schiena ricurva sotto un mantello. Si muoveva come volesse nascondersi, con un passo incerto sparì immediatamente tra la vegetazione. Mi incamminai su un piccolo crinale che, come un ponte, si avvicinava al villaggio: una stretta via sulla sommità di scoscese pareti conduceva verso una robusta porta in uno spesso muro.

Lasciai fuori il cavallo. Sembrava quasi che il pertugio fosse stato fatto con lo scopo di non fare entrare un cavaliere montato sulla sua bestia. Ma perché era aperto e non c’era nessuno?

La struttura era proprio come me la ero immaginata: iniziai a camminare dentro angusti locali, le case appiccicate le une alle altre comunicavano tra di loro. Praticamente, se qualcuno avesse avuto l’ardire di entrare, si sarebbe trovato in un antro stretto e buio, e il difensore, da un foro sul tetto, avrebbe facilmente potuto gettargli addosso qualunque cosa. Tutto era molto ingegnoso, ma completamente deserto.

Decisi di uscire all’aperto attraverso una piccola scala di legno che portava sul tetto. La superficie era solo leggermente inclinata, coperta da lastre di pietra sapientemente incastrate, facile da percorrere. Passai da una copertura all’altra, fino alla tozza torre, che sembrava l’edificio più importante della complessa fortificazione.

Non capivo se mi stessi introducendo nel torrione passando da una bassa finestra incustodita o da una porta. Con un piccolo salto scesi nella penombra e attesi che gli occhi si abituassero alla flebile luce. In un angolo vidi una donna seduta vicino alla brace di un camino ormai spento. Aveva la mano appoggiata su un fagotto. Si girò appena, come se non le interessasse chi fossi o quali intenzioni avessi.

Poi, come in un sussulto, si scosse e, con voce ferma, mi disse: “Va via finché sei in tempo”. Lo disse nella mia lingua, e questo mi sorprese, facendomi arretrare di qualche passo.

“Cosa è successo? Perché te ne stai qui da sola? Dove sono gli altri?” le chiesi.

“Una pestilenza ha colpito il villaggio. Nessuno è voluto scappare via. Siamo rimasti tutti qui. E quando i segni della malattia si facevano evidenti, ognuno per suo conto, quando ancora le gambe lo reggevano, prendeva il proprio fagotto con le cose che gli potevano essere utili per gli ultimi giorni della sua vita e andava a incontrare gli antenati nelle cripte funerarie del villaggio”.

Non sapevo cosa dire. Le chiesi di uscire alla luce, che così l’avrei potuta osservare meglio, e le dissi che avevo con me alcune erbe officinali che forse le avrebbero potuto dare sollievo. La donna non sembrava convinta dalle mie parole, ma forse, come ultima superstite di questo clan, attendere la morte fuori o dentro questo antro cambiava poco il senso della grave decisione che tutto il villaggio aveva preso nell’interesse delle comunità circostanti.

Mi seguì docile come un agnello. Alla luce del sole potei vedere una giovane donna con una folta criniera di capelli neri, la pelle scura, abbronzata dal sole, e un profilo che un giorno doveva essere stato fiero. Manteneva i tratti di una sconcertante bellezza; ora, però, rimaneva solo uno sguardo smarrito che non sapeva dove trovare pace.

Apparentemente non aveva alcun segno della malattia. Le chiesi se avesse qualche bubbone sul corpo. Mi disse di no: da quando la malattia era comparsa e aveva, in pochi giorni, dimezzato la popolazione, ognuno era rimasto nella propria casa, cercando di non avere contatti. Ma il morbo era stato impietoso, e ogni giorno un tocco di campana segnalava che qualcuno aveva imboccato la via che porta alle catacombe, e con questo ultimo gesto salutava chi ancora aveva una speranza di vita.

Non sapevo cosa fare. Le dissi che avevo incontrato Vakhtang. Sorrise. “È mio fratello,” esclamò, poi lo sguardo si rabbuiò, consapevole che tra un mese o poco più, all’arrivo dell’inverno, avrebbe trovato solo il gelo tra queste pareti.

Provai a convincerla a venire con me, con più entusiasmo possibile le raccontai del mio progetto di una nuova via per raggiungere l’Asia, ma sembrava non ascoltarmi. Stava lì, come una coppa vuota da cui l’ultimo astante aveva bevuto anche l’ultima goccia di vino.

A me, i bicchieri vuoti mettono sempre una certa tristezza. Cerco sempre di non guardarli da sobrio quando sono vuoti, e di addormentarmi ubriaco e felice dopo l’ultima libagione.
Rimasi con lei fino all’imbrunire, poi le dissi che mi sarei accampato vicino al fiume e che al mattino sarei tornato per vedere come stava e se aveva cambiato idea.

La notte fu piena di suoni: forse gli antichi si radunarono per rendere omaggio al coraggio di questa gente. Sembrava che, tra le foglie mosse dal vento, ci fosse qualcuno, o forse era solo la mia profonda frustrazione che mi impediva di dormire, l’impotenza di lottare contro la maledizione mandata da qualche dio malevolo.

Dov’era nascosta la spada Lepnura che tanti nemici aveva sconfitto? Quale cavaliere la brandiva, lontano dalla sua gente, ignaro dell’atroce destino?

Al mattino, con il cavallo alla mano, mentre mi accingevo a salire il crinale, nella gola si diffuse il suono della campana. Rimasi fermo, immobile. Non sapevo cosa fare, ma capii il doloroso gesto.

Montai a cavallo e cominciai a spingerlo con tutta la forza che avevo su per la gola che conduceva fuori dalla valle. I rovi mi strappavano i vestiti, si piantavano feroci nella pelle. Ci vollero diversi chilometri prima che il cavallo, sfinito, si fermasse in una radura, proprio alla sommità di una culla tra due gole.

Non osavo alzare lo sguardo. Sentivo la mia povera bestia ansimare: sanguinava da un fianco. Che stupida cosa avevo fatto! Bisbigliando le chiedevo perdono. Sceso, cercai immediatamente di curarla, pulendo le ferite.

Levata la sella, la lasciai pascolare libera. Non le misi nemmeno le pastoie: se fosse scappata, me lo sarei meritato, e forse meritavo anche io di suonare la campana.
Mi misi a girovagare.

Salii un po’ più in alto: volevo capire quali altre montagne mi si paravano di fronte. Da uno sperone di roccia, che avevo salito con fatica, vidi una lunga pianura. Ero arrivato in Dzurdzuketia. Ce l’avevo fatta. Non sapevo se dovessi piangere o ridere. Corsi subito ad annotare le indicazioni nella mia preziosa pergamena.

Finito, mi sdraiai all’ombra di una grande mukha (20). Nulla potevo fare se non attendere per capire se il viaggio della mia vita era giunto alla fine.

Note

1 Norki – Abete / 2 Laghami –Piccolo tempio / 3 Mechi – arco / 4 Mezrki – frecce / 5 Shashka – spada ricurva / 6 Ghomi – farina di mais / 8 Sapar – ascia / 9 kama pugnale / 10 Koshki – torri degli svaneti / 11 Lomsuri – un pane rustico / 12 Matsoni – yogurt liquido /13 Chokha – tunica /14 Larh – miele / 15 Karachai – cavallo del Caucaso / 16 Atsy – Ontano / 17 Nagazi – cani pastore / 18 Sapka – scarpe semplici fatte con un pezzo di pelle / 19 Samghvini – segale in svan / 20 Mukha – quercia.

(4 – fine)

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