Seconda parte del racconto “Come un Lupo”. Nella prima parte, il nostro David Abashidze, avatar di Luca Gentili, ha affrontano le aspre montagne caucasiche alla ricerca di un passaggio a Sud. Ma si è trovato al cospetto di una tribù, misconosciuta e bellicosa, gli Svan. Li interrompe mentre celebrano un funerale.
2: ბ (bani) – Con aria interrogativa cercavano di capire le mie intenzioni e volevano assicurarsi che non brandissi armi. Io, per togliere ogni sospetto, tenevo le mani ben in vista, girando leggermente il cavallo di lato per mostrare il sapar (8) legato a un lato della sella e il mechi3 che spuntava dal lato opposto. Il kama (9) , ben in vista, era legato alla cintura.
Non sembravano infastiditi; sicuramente avevano avvertito la mia presenza già da diversi minuti, e, come abili giocatori, attendevano che facessi io la prima mossa. Non puoi sorprendere chi vive in questi luoghi: qui sopravvivere è un’arte affinata nei secoli dalla durezza del territorio. Avranno percepito il continuo battere degli zoccoli, o lo sbuffare del cavallo, che, contraendo rapidamente la pelle, faceva vibrare il corpo cercando di scacciare i fastidiosi tafani che banchettavano con il suo sangue.
Intenti nel canto cerimoniale del rito funebre, ora sembravano riemersi da un’altra dimensione, e mi fissavano come se avessero visto un fantasma.
Per far loro capire che non avevo intenzioni ostili, avvicinandomi al tumulo, ho versato un po’ di vino dalla fiasca sulle pietre della tomba, rendendo così omaggio al morto. Poi, allungando il braccio, ho offerto loro il rimanente.
Il problema, ora, era come comunicare. Sapevo che l’isolamento aveva creato una barriera linguistica tra l’abkhazo della valle e lo svan parlato sui monti, ma ero consapevole che alcune parole di uso comune come fame, sete, freddo erano codificate in un linguaggio condiviso.
Dopo che tutti avevano bevuto, indicai il cielo, il sole che tramontava, e, con le mani congiunte appoggiate sulla guancia, feci l’universale gesto del sonno, unendo poi le mani a formare una capanna, segnalai la mia ricerca di un rifugio per la notte. Contavo sulla sacra ospitalità che gli svan avevano per chi consideravano un ospite.
Ma chi ero io per loro?
Senza fare domande, mi indicarono un sentiero che si avvicinava ancora di più alla costa della montagna, conducendomi presso un gruppo di case fatte di pietra bruna, praticamente invisibili se non fosse stato per la grande koshki (10), alta forse trenta metri, che svettava al centro del villaggio.
Il buio sulla montagna sembra avvinghiarti. Il cielo, privo di stelle, ormai aveva inglobato le vette. Una fioca luce traspariva da una minuscola finestra. Mi spinsero in un basso locale appena rischiarato da una lampada alimentata con grasso di sego.
Un uomo anziano, certamente il capo clan, mi invitò a sedere. In silenzio mi scrutava, come se attendesse una mia frase. Scandendo il più possibile la pronuncia, provai con semplici parole: datzva, sakhli (protezione, casa), e gli porsi il sacchetto di noci che avevo preso prima di scendere da cavallo.
L’uomo lo aprì, guardò il contenuto e ne sparse alcune sulla tavola. Poi, con una sonora manata, ne ruppe una e iniziò a mangiarla. Alzò la testa, sorrise e indicò qualcosa a una donna, che subito portò sul tavolo un grosso lomsuri (11), un pane rustico e denso, e una brocca piena di matsoni (12), uno yogurt liquido.
La tensione sembrava sciogliersi. Forse ora, accettando il mio dono, avevo acquisito lo status di ospite. Un doloroso crampo al polpaccio mi costrinse a stendere la gamba; nell’incontro non mi ero reso conto di quanto il mio corpo si fosse irrigidito.
Con una voce chiara, mi chiese poi, nella mia lingua, chi fossi.
“Un semplice viandante, amico di Mikheil Margiani, alla ricerca di un passaggio che mi porti verso oriente”, risposi.
“Mikheil, quel mercante farabutto e truffatore che ogni anno ci paga la lana delle nostre greggi la metà del valore, con la scusa che lui è uno del clan e ci mantiene in buoni rapporti con i popoli delle valli”.
“Frequenti brutte amicizie…” aggiunse ridendo sonoramente, con il matsoni (12) che colava dalla bocca, inondando il nero della sua barba.
Gli uomini che avevo incontrato erano i migliori guerrieri del clan. Parlottavano tra loro e, rivolgendosi al capo, raccontarono al vecchio qualcosa nella loro, per me incomprensibile, lingua. Forse parlavano della sepoltura del guerriero.
Poi Bidzina, questo il nome del capo clan, si rivolse nuovamente a me e disse che per stanotte potevo rimanere, ma che domani all’alba era meglio che partissi se non volevo essere coinvolto in uno scontro. Erano in guerra con il clan rivale, una disputa d’onore e terre degli alti pascoli, e che qualcuno, domani, sarebbe morto.
Ormai la tensione intorno a me si era completamente sciolta. Tutti chiacchieravano e bevevano. Gli uomini intorno indossavano tutti una pesante chokha (13) stretta in vita; le tasche sul petto avevano un piccolo decoro, forse le insegne del clan.
Vorrei capire meglio questa gente solida e fiera, che pareva senza paura, ferma nelle proprie tradizioni.
Chiesi a Bidzina del morto. Per un istante tacque, concentrato, come se cercasse le giuste parole. Poi mi disse che era il loro più bravo cacciatore, a cui la bellissima Dali, dea protettrice degli animali, aveva concesso la possibilità di catturare cervi e caprioli, suoi protetti, ma ad un patto: non avrebbe mai dovuto vantarsi del suo successo né prendere più del necessario.
Ma Gabliani, il cacciatore, non aveva resistito. Forse, dopo qualche bicchiere di troppo, aveva raccontato le sue gesta alla sua amata, forse per fare colpo. Così, due mattine or sono, fu trovato con la pancia squartata, un unico lungo e preciso fendente, fatto con un affilato artiglio.
Avrei voluto raccontare qualcosa di me, ma con la punta d’argento ero più abile che con una spada, che peraltro non possedevo. E qui, le storie apprezzate erano solo quelle di guerra.
La luce del tramonto era scomparsa da circa due ore, e tutti ormai cercavano un giaciglio. Alcuni uomini, spediti sulla koshki (10), controllavano eventuali movimenti del nemico. Sbarrate le porte, tutto cadde nel silenzio.
Passò una breve notte, e al risveglio non ci fu alba. La donna che la sera prima mi aveva portato il lomsuri (11), quando fuori era ancora buio, si avvicinò e mi scosse. In mano aveva un fagotto. “Larh (14), larh, larh…” ripeté tre volte, porgendomelo e invitandomi a uscire.
Non capii subito che era un regalo. Ancora assonnato, mi precipitai fuori. All’esterno, una trentina di uomini con la shashka (5) appesa alla cintura erano radunati ad ascoltare le parole di Bidzina. Appena ebbe finito, si separarono velocemente in piccoli gruppi e scomparvero nella nascente alba, che faticava ancora a rischiarare la valle.
Il vecchio, avvicinandosi a me con il braccio teso, mi indicò una via e si raccomandò di scendere subito verso la valle. “Tra qualche chilometro troverai il letto secco di un torrente che fa da confine al territorio del mio clan. Seguilo,” mi disse, “mantieniti sull’opposta sponda a valle, così gli altri clan non ti confonderanno per uno di noi”.
Note
1 Norki – Abete / 2 Laghami –Piccolo tempio / 3 Mechi – arco / 4 Mezrki – frecce / 5 Shashka – spada ricurva / 6 Ghomi – farina di mais / 8 Sapar – ascia / 9 kama pugnale / 10 Koshki – torri degli svaneti / 11 Lomsuri – un pane rustico / 12 Matsoni – yogurt liquido /13 Chokha – tunica /14 Larh – miele / 15 Karachai – cavallo del Caucaso / 16 Atsy – Ontano / 17 Nagazi – cani pastore / 18 Sapka – scarpe semplici fatte con un pezzo di pelle / 19 Samghvini – segale in svan / 20 Mukha – quercia.
(2 – continua)