Ho scritto questo racconto al ritorno da un breve ma intenso viaggio in Georgia, dove ho avuto l’opportunità di esplorare alcune delle aree più remote del paese, incontrando persone, ascoltando storie antiche e immergendomi nelle leggende locali. Invece di limitarmi a un semplice resoconto di viaggio, ho preferito dar vita a una narrazione che catturasse le atmosfere senza tempo che ho respirato, tra montagne imponenti e villaggi nascosti. Buona Lettura. Luca
Come un Lupo
David Abashidze (immagine sopra) aveva un volto scavato dal tempo e dal vento delle montagne, con una barba scura che iniziava a ingrigire. I suoi occhi, di un azzurro profondo, erano attenti a ogni dettaglio del paesaggio, come se potesse mapparlo solo osservandolo.
Il corpo, robusto e resistente, portava i segni di anni passati a viaggiare, ma le sue mani, sottili e precise, tradivano l’abitudine al disegno accurato e minuzioso delle mappe. Non era un guerriero, come forse avrebbero richiesto i tempi e i luoghi; la sua arma era la conoscenza. Anni di studi lo avevano portato a un’unica convinzione: c’era un passaggio, nascosto tra le montagne impenetrabili del Caucaso, che avrebbe potuto cambiare il corso delle vie di commercio. La sua missione non era solo esplorativa, ma quasi spirituale: lasciare una traccia di sé nelle mappe del mondo conosciuto.
David era un uomo silenzioso, abituato alla solitudine dei suoi viaggi. Gli piaceva camminare da solo, come un lupo, lasciando che la vastità del paesaggio lo avvolgesse. Ogni mappa che disegnava, ogni nuova terra che esplorava, non era solo una conquista geografica, ma un dialogo segreto tra lui e il mondo. Era rispettato, anche se spesso lo vedevano come un uomo distante, immerso nei propri pensieri, più a suo agio con la terra e le stelle che con le persone.
La sua casa era un’antica residenza di pietra, immersa tra le colline e le valli del Regno di Abkhazia. Dalla veranda poteva osservare i picchi innevati delle montagne, che da bambino avevano alimentato i suoi sogni di esplorazione. Le pareti interne erano adornate da mappe disegnate a mano, segni del suo instancabile lavoro di cartografo.
Ma il vero rifugio per il suo spirito era l’antico caravanserraglio, non lontano dalla sua dimora, ai margini delle montagne che separavano l’Europa dall’Asia. Qui, tra le robuste mura di pietra, mercanti arabi, abkhazi e persiani si incontravano, portando con sé merci preziose, storie lontane e sogni di nuove terre da esplorare. Era lì che David trascorreva gran parte delle sue giornate, ascoltando racconti di passaggi nascosti e terre inesplorate, cercando tra le parole altrui il segreto che avrebbe cambiato la sua vita.
Quando il ricco e ambizioso mercante Adarnase di Kutaisi gli commissionò di trovare una nuova via attraverso le impervie montagne del Caucaso, David non esitò. Da anni cercava quel passaggio, nascosto tra le vette aspre e inaccessibili. Ogni viaggio era stato una battaglia contro il freddo, il vento e la solitudine. Eppure, David non era mai stato scoraggiato. Sapeva che quel viaggio rappresentava la sfida della sua vita. Non era solo alla ricerca di un passaggio fisico tra le montagne, ma di una via che lo conducesse al cuore del proprio destino.
Adarnase, desideroso di aprire nuove rotte commerciali che avrebbero collegato il suo commercio ai mercati dell’Oriente, si fidava dell’esperienza e della conoscenza di David. Solo lui poteva affrontare una missione tanto pericolosa e incerta.
David scelse un piccolo e robusto Karachai (15) dal mantello scuro, perfetto per affrontare i sentieri impervi e accidentati delle montagne. Non era appariscente, ma si muoveva con agilità tra le rocce e i sentieri nascosti, senza sfiancarsi. Radunò pochi oggetti essenziali, oltre ai suoi preziosi strumenti da cartografo, e due giorni dopo l’incontro con Adarnase, era già in cammino.
Viaggiava all’alba o al crepuscolo, quando i villaggi erano immersi nel silenzio e la luce fioca del sole calante offuscava i dettagli. In questo modo, poteva percorrere chilometri senza attirare troppa attenzione. Indossava una chokha (13) di lana scura, semplice e priva di ornamenti, con il capo coperto da un cappuccio di pelle. Da lontano, chiunque lo avrebbe scambiato per un pastore in cerca di nuovi pascoli, mai per un cartografo in missione.
Come un Lupo – “Ombre su pietre millenarie”
1: ა (ani) – Inerpicarsi per la montagna su quella impressionante china sembrava impossibile. Lasciavo andare il cavallo, le briglie lente sul collo; la povera bestia, madida di sudore, metteva gli zoccoli uno dietro l’altro, come se seguisse un’invisibile linea percepibile solo ai suoi occhi, salendo lenta su per il fianco della montagna.
La vegetazione, nonostante la quota, non era ancora scomparsa, ma si era fatta rada. Resisteva ancora qualche imponente norki (1), svettante nelle valli più riparate, e intorno, come figli, gruppi di alberi più piccoli sembravano cercare la protezione del possente abete, unico sicuro baluardo contro l’inverno rigido che presto sarebbe tornato.
Da cartografo, mi stavo arrampicando quassù alla ricerca di un passaggio tra le impenetrabili montagne del Caucaso, qualcosa che mi permettesse di spingermi dall’Europa verso l’Asia. I passi praticabili, in un raggio di oltre mille chilometri, si potevano contare sulle dita di una mano. Esploravo il territorio montano dove si erano arroccati gli Svaneti, un popolo che, si dice, vivesse tra queste inaccessibili vette da millenni, isolato in mezzo a gole dove nessuno osava avventurarsi.
Vedendo questi luoghi, c’era da chiedersi perché qualcuno avrebbe mai dovuto salire fin quassù: per rubare una capra o uccidere un vitello? Il risultato ottenuto non avrebbe mai compensato lo sforzo e, soprattutto, il rischio da correre, visto la fama di valenti guerrieri che aleggiava intorno agli svan.
La stagione in cui era possibile raggiungere i villaggi, a causa della neve, delle piogge primaverili e del fango, era molto breve, tale da preservare l’isolamento di questo popolo dal contatto con altre tribù.
Al tiepido sole del pomeriggio si stava sostituendo una lama gelida di vento che scendeva giù per i canaloni. Grossi tafani martoriavano la mia povera bestia, e la mia camicia pesante a malapena mi proteggeva. Mi ero avvolto una grossa sciarpa intorno al collo fino a sotto gli occhi, tirata su quasi fino a toccare il cappello.
In questo scorcio d’estate, il risveglio della natura era prepotente: ogni animale o pianta doveva compiere il suo ciclo, e la vita ribolliva. Quella che sembrava un’apparente quiete non lasciava scampo: ronzii, sibili e strani richiami echeggiavano nell’aria. Per cercare protezione dagli insetti, avevo raccolto mazzetti di artemisia e di ginepro e li tenevo legati, ciondolanti, intorno alla sella, nella speranza che il profumo li scacciasse.
Annotavo meticolosamente ogni fonte, pozza o qualsiasi altra cosa che potesse tracciare il mio cammino, ma la carrareccia sembrava non avere un senso: prima spariva in un prato, poi si tuffava in un fiume, e solo con fatica riuscivo a dare una linea al mio percorso. Qualche piccola coltivazione di grano saraceno, pronta alla mietitura, faceva presupporre che da qualche parte intorno ci fossero degli uomini.
Un laghami (2) vicino a una sorgente mi diceva che ero sulla giusta strada. Appena notato quel minuscolo monte di pietre, se non avessi visto una manciata di grano e le gocce di cera di una consumata candela, non avrei guardato con la giusta attenzione la pietra sommitale, le cui leggere incisioni lasciavano intuire la sacralità del luogo, forse caro agli antenati.
Un canto a tre voci dissonanti, che non assomigliava a nulla di ciò che i miei orecchi avevano mai sentito, sembrava venirmi incontro, solenne e malinconico, come un lamento di dolore. Fermo il cavallo e cerco di capire da dove venga la strana melodia, che sembra rimbalzare sui sassi, disperdersi e attenuarsi nel vento.
Guardando attentamente tra i rami, intravedo tre uomini di fronte a un tumulo. Erano intenti a chiuderlo e, prima di posare le ultime pietre, attraverso un pertugio stavano inserendo un mechi (3) un mazzetto di mezrki (4), una leggera shashka (5), una spada senza guardia a un solo taglio, leggermente curva, ideale per colpire gli avversari con fendenti veloci e potenti.
Il morto doveva essere un guerriero. Altre piccole cose sparse sull’erba, che non riuscivo a distinguere, completavano il corredo funebre: sembravano oggetti di uso comune, forse vasetti di cibo che i compagni ritenevano utili per accompagnare la vita nell’aldilà.
Stavo cercando un incontro con gli svan, ma al contempo temevo la loro reazione. Signori di questi luoghi, nessuno era riuscito a sottometterli nei millenni passati. Allenati a combattere tra clan per affermare i loro diritti o per vendicare qualsiasi offesa ricevuta, si coalizzavano immediatamente come un sol uomo se qualcuno cercava di occupare i loro territori.
Ora io, un cartografo esploratore senza insegne, senza una lettera di presentazione, cercavo di avvicinarmi solo con la raccomandazione orale di un certo Marginai, uno svan che si era trasferito in valle e adattato alla vita più agiata del Regno di Abkhazia.
“Va a nome mio,” mi disse, “e digli che sei mio amico, amico di Mikheil Marginai”.
Bene, io con questa flebile corazza di parole mi avvicinavo a dei guerrieri con un sacchetto di noci e uno di ghomi (6), una scura farina di mais, come scudo.
In silenzio, cercando di non farmi notare, ho atteso in disparte che la cerimonia finisse, poi lentamente mi sono avvicinato a piedi, con le briglie del cavallo in una mano. Il muso della povera bestia, che ora aveva ripreso fiato, sfiorava l’erba e ne strappava qualche stelo.
Quando ormai ero a pochi metri, il gruppetto di uomini si è lentamente girato e ha iniziato a scrutarmi. Le loro mani erano serrate attorno all’elsa delle shashka (5), le nocche bianche per la tensione, pronte a sguainare al minimo cenno di pericolo. Uno di loro, più in disparte, aveva già preparato il mechi (3) e stringeva una mezrki (4) tra le dita, con la precisione di chi non sbaglia mai un colpo. Non c’era spazio per esitazioni. Sentivo ogni respiro, ogni battito del cuore, mentre il gelo dell’attesa mi avvolgeva. Nessuno parlava, ma il messaggio era chiaro: un solo passo falso, e sarebbe stato il mio ultimo.
(1 – continua)
Note
1 Norki – Abete / 2 Laghami – Piccolo tempio / 3 Mechi – arco / 4 Mezrki – frecce / 5 Shashka – spada ricurva / 6 Ghomi – farina di mais / 8 Sapar – ascia / 9 kama pugnale / 10 Koshki – torri degli svaneti / 11 Lomsuri – un pane rustico / 12 Matsoni – yogurt liquido / 13 Chokha – tunica /14 Larh – miele / 15 Karachai – cavallo del Caucaso / 16 Atsy – Ontano / 17 Nagazi – cani pastore / 18 Sapka – scarpe semplici fatte con un pezzo di pelle / 19 Samghvini – segale in svan / 20 Mukha – quercia