Paolo Benini: “Quando un gruppo funziona come una mente sola, ogni ingranaggio conta. E il risultato arriva”
Il Prof. Paolo Benini è un esperto di High Performance Psychology con una lunga esperienza nel campo. Docente presso l’Università di Siena, è noto per il suo lavoro con atleti e staff tecnici di alto livello in numerose discipline. Nel suo recente articolo “Il cervello collettivo nei team”, pubblicato il 4 maggio 2025 sul blog The Mental Coach, esplora il concetto di “cervello collettivo” e il suo impatto sulle dinamiche di squadra.
Nel tuo articolo, introduci il concetto di “cervello collettivo” nei team. Potresti spiegare come sei giunto a questa idea e quali esperienze l’hanno influenzata?
“Beh, il mio difetto – o la mia forza – è la curiosità ossessiva. Quando qualcosa mi interessa, ci affondo dentro finché non si esaurisce l’interesse. Poi passo ad altro. Un giorno mi capitò sotto mano un articolo sulle “Levy walk” – schemi di movimento osservabili nel mondo animale, efficaci per ottimizzare ricerca ed esplorazione -. Da lì si è aperta una riflessione più ampia sul comportamento coordinato e spontaneo dei gruppi. Ho iniziato a vedere certe dinamiche nei team sportivi: momenti in cui tutto funziona senza sforzo apparente, come se ci fosse un’unica mente che guida molti corpi. Lì ho cominciato a parlare di cervello collettivo”.
Come può un team sviluppare e rafforzare il proprio “cervello collettivo”? Ci sono strategie specifiche che consigli?
“Va premesso che ogni caso è a sé. Il cervello collettivo non è la somma delle intelligenze individuali, ma un’intelligenza che emerge, solo in certi momenti, e solo a certe condizioni. È uno stato in cui le azioni si compongono da sole, come se ogni elemento del sistema sapesse cosa fare. Perché accada, servono esperienze comuni, obiettivi e programmi chiari, capacità di elaborare gli insuccessi in modo costruttivo. Ma serve anche tempo: il tempo necessario perché si crei una memoria condivisa, un linguaggio implicito, una fiducia che non si spiega, ma si sente. È un effetto generato dal tuo modo di lavorare: se funziona, prima o poi accade”.
Qual è il ruolo di un mental coach nel facilitare la formazione di un “cervello collettivo” all’interno di un team?
“Personalmente, prendo le distanze dal termine “mental coach”, ma per comodità possiamo usarlo. Il ruolo consiste nel facilitare il flusso. Far sì che tutto scorra. Non si tratta solo di allenare la testa degli atleti, ma di diffondere un approccio sistemico che coinvolga staff, atleti, dirigenti. Si parte da un mindset condiviso, poi si lavora per tradurlo in pratiche quotidiane. Alla fine, se funziona, tutto si muove all’unisono. E questo movimento ha un effetto generativo: trasforma il gruppo in qualcosa di più della somma dei suoi membri”.
Quali sono le principali difficoltà che i team incontrano nel tentativo di creare una mente collettiva coesa?
“Il problema principale è il disordine, che si manifesta in varie forme: personalismi, ego spropositati, autoreferenzialità, programmi confusi, obiettivi irrealistici. E sull’ego, non è che io ne sia privo, anzi: ma la differenza tra me e un cretino è che io l’ego lo uso, o scelgo di non usarlo, a mio piacimento. Il cretino no. Costruire un cervello collettivo è complesso, perché richiede rinunce, adattamenti, ascolto vero. Ma io non mi scoraggio facilmente. Il disordine si può gestire. L’importante è che qualcuno abbia il coraggio di mettere mano alla struttura, non solo ai sintomi”.
Hai osservato miglioramenti concreti nelle performance dei team che hanno sviluppato un forte “cervello collettivo”?
“Sì, e sono impossibili da ignorare. Quando un team si muove come una testuggine romana, con coesione, sincronia e scopo condiviso, cresce. Magari non vince sempre, perché il risultato dipende anche da altri fattori. Ma migliora, e questo è innegabile. Spesso si dice che grandi giocatori non fanno necessariamente una grande squadra. È vero: serve un collettivo che funzioni. E perché funzioni, serve anche un grande magazziniere. Ogni ingranaggio conta. La prestazione è la somma delle sintesi di ognuno”.
Il concetto di “cervello collettivo” si applica in modo diverso in contesti culturali o organizzativi differenti?
“Lo sport ha una fortuna: alterna momenti di confronto, sintesi e operatività. E in quei momenti, uno solo decide. Ma decide quello che tutti hanno già deciso che si decida. Il confronto c’è stato prima, e chi guida applica quella sintesi. Questo rende possibile l’emergere del cervello collettivo. In altri contesti – aziende, sanità, arte, educazione – i principi sono gli stessi. Cambia la forma, non la sostanza. L’unico campo dove sembra difficile applicarli è la politica, dove la confusione – più che un problema – appare spesso come un fine deliberato. E forse anche l’unico fine possibile, viste alcune cose su cui preferisco non soffermarmi”.
Come vedi l’evoluzione del concetto di “cervello collettivo” nei prossimi anni, soprattutto con l’avanzare della tecnologia e del lavoro remoto?
“Oggi tutti parlano di AI, smart working, tecnologie. Ma interagire con strumenti esterni non è una novità. Da ragazzo studiavo sulle enciclopedie. Anche quello era un cervello esteso. Ora abbiamo uno smartphone sempre in mano, che funziona come protesi mentale. E si parla già dell’inserimento di chip cerebrali entro il 2050 per amplificare la potenza cognitiva. Io su questo sono stoico: non serve inorridire, ma prendere atto e approfittarne. Cambiamo valvole, cuori, organi, abbiamo fatto la pecora Dolly. Lo sviluppo tecnologico è come il cervello collettivo: non nasce da volontà individuali, ma da un movimento che sfugge alla regola. È qualcosa che accade. Punto”.
“L’AI ti sostituisce se sei passivo – continua Paolo Benini -, ti potenzia se sei attivo. Io oggi ho tracciato i profili di quattro atlete olimpiche in due ore grazie all’AI. Nel 2011, per un lavoro simile, ci vollero dieci giorni. Il contenuto però è mio: i modelli, le domande, la visione. L’AI li rende solo più operativi. Lo smart working? Può aumentare la connessione, non diminuire la coesione, se usato bene. Lavoro con atleti sparsi in tutto il mondo. L’unico limite è la Cina, dove le dinamiche sono differenti”.
Quali consigli daresti ai leader che desiderano promuovere un “cervello collettivo” efficace nei loro team?
“Primo: scegli persone competenti. Secondo: evita la formazione-spettacolo da un pomeriggio sul tema. Terzo: tieni alla larga il “motivatore” – figura che non esiste, una messinscena da cabaret, fuffa buona per la Gialappa’s. Servono professionisti seri, preparati, con visione e metodo. Non saltimbanchi. Se serve uno, chiama uno come me”.
Potresti condividere un’esperienza significativa in cui hai osservato l’efficacia del “cervello collettivo” in un team con cui hai lavorato?
“Sì, sto lavorando con una squadra in cui ho introdotto una regola: non esistono atleti, allenatori, fisioterapisti, nutrizionisti, preparatori. Tutti siamo prestatori di performance. Il lavoro di ciascuno concorre a un risultato che gli atleti sintetizzano in gara. E il risultato è la classifica. Se il trend è positivo, stai lavorando bene. Ma non basta: serve capire dove migliorare ancora. Quando sei in cammino non devi rinegoziare tutto ogni volta. Puoi e devi fare aggiustamenti mirati. Se invece sei fermo, hai finito la spinta. E allora servono soluzioni nuove”.
Hai in programma ulteriori ricerche o pubblicazioni su questo tema? Dove possiamo seguire i tuoi prossimi lavori?
“Tipo una trentina – forse più – di anni fa, a un convegno alle Scotte, sentii il Prof. Neri dire che una grande parte delle pubblicazioni universitarie servono solo a replicare se stesse. Aveva ragione. Oggi non pubblico più articoli accademici: preferisco usare due blog, thementalcoach.it e paolobenini.com. Il mio scopo è diffondere una visione alle persone. È la logica miope del profitto – che si persegue facendo scelte a caso – a danneggiare più di tutto proprio il profitto stesso. Oggi le aziende investono cifre importanti in società di consulenza popolate da individui malpagati, sotto pressione, stressati. È vero che la motivazione non può essere legata solo ai soldi, ma è altrettanto vero che le cose hanno bisogno di misura. Se pensiamo che non sia giusto tenere galline in allevamenti intensivi, dovremmo avere la stessa attenzione per il genere umano. Perché se quelle galline non sono sane, il prodotto non è sano. Vale anche per gli stagisti sfruttati nel mondo della consulenza. Allora io chiedo: ma uno che lavora male, come può far lavorare bene gli altri? È un paradosso. E non è politica – francamente me ne frego – è una considerazione clinica. E molto semplice. Il cervello collettivo, come nella natura, nasce quando è chiaro cosa fare, chi lo deve fare e come. Quando accade, i risultati arrivano. Sempre”.