Il freddo e l’invito al gioco

La rubrica “Andata e Ritorno” torna oggi alla vita dei bimbi anni Sessanta tra i confini di Cerchiaia

Un altro piccolo racconto da nulla sulla scala dei ricordi, frammenti di un tempo che, come un mosaico, cerco di saldare. Tessere sparse senza un apparente ordine che tratteggiano la memoria. Bene… io comunque quando affiorano, con certosina metodica cerco di tirarle su dalla schiuma del tempo.

La stretta strada in discesa tra la casa di mattoni rossi e l’orto sembra invalicabile. Cammino piano sballottato dal vento, faticando a compiere ogni passo. Fermo, in cima alla discesa, allargo le braccia: il cappottino con i grandi bottoni di osso fa vela, si gonfia. Con le braccia tese imito gli uccelli, le muovo inclinandole da un lato e poi dall’altro, sperando che una raffica più grande, più forte delle altre, possa farmi volare.

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Il vento sale su dai campi in una sequela gelida, pulsante, a ondate che ti lasciano senza respiro. Il freddo tiene tutti in casa, al caldo della stufa economica; fuori non c’è anima viva. Avevo convinto Marina a lasciarmi andare: avevo approfittato di un suo momento di incertezza ed ero corso via, giù per le scale. Il piazzale dei giochi era vuoto. Non ricordo più che mese fosse, marzo forse, anche aprile.

Nel mezzo un grosso cumulo di neve tardava a sciogliersi, aveva ormai perso tutto il delicato candore. Al calar del giorno, con il raffreddarsi della notte, la superficie era divenuta dura, si era modellata scarnificandosi: il bianco si era tramutato in grigio. Solo sul bordo, una trasparente bava di ghiaccio ricordava l’originale purezza.

Per gioco mi sono messo a tirare calci alla neve, in un vano tentativo di rompere il monte, che duro come pietra appena si scalfiva. L’unico risultato delle mie fatiche è che ora avevo i piedi gelidi e bagnati. Quel gioco non mi appariva più divertente: dovevo trovare altro.

Intirizzito dal freddo, mi giro e cerco riparo sul cantone della casa. All’interno dello spesso muro incavato della porta, dalla toppa dorata scende un filo, un semplice spago con un grossolano nodo: la chiave, come si usava allora, era nell’uscio. Con le mani intorpidite, cerco di girarla. Lo schiocco secco della serratura dischiude l’uscio dallo stipite e subito una vampa di calore esce piacevole, accarezzandomi il volto.

Entro, me la chiudo alle spalle e rimango lì, nella penombra del corridoio che conduce alla cucina. Conosco bene quella casa. Tirando su con il naso che cola, cerco di riprendermi. Dall’uscio sbircio la cucina: una piccia di pomodori rossi un po’ avvizziti, di una dimenticata estate, ancora pende da un arrugginito chiodo. Nonna Nilde sferruzza, Susy fa i compiti. La grossa stufa fa in pieno il suo dovere: il bruno piano di ghisa sembra evaporare tanto è rovente. Dal lucido mancorrente che la circonda pendono ordinati un ramaiolo squadrato, una schiumarola e un forchettone.

Nessuna voce esce dalla stanza. In silenzio, attendo un istante che mi sembra lunghissimo, quasi si sentisse lo scorrere del tempo. Scalpiccio un po’. Nilde con la testa alta, lo sguardo fisso sull’ingresso, continua imperterrita il lavoro, mi ha sempre affascinato l’abilità del lavoro a maglia, un po’ come le dattilografe che scrivono guardandoti in faccia con le mani indipendenti da quello che fa la testa, “ah… Mi era sembrato che fosse entrato qualcuno. Vieni qui a scaldarti”, Susy nel frattempo ha chiuso il quaderno, mi guarda e aggiunge, vieni… si gioca.

Non ricordo il gioco, non c’era molto, chissà con quale semplice oggetto ci siamo inventati una storia. Nella bella stagione bastava un filo d’erba, un lombrico sul rovescio di una zolla, o il semplice vagare nel campo per riempire le ore di un giorno.

L’immagine in copertina è dello street artist Banksy: Bambino che gioca nella neve

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