Il tintinnio della Grotta – Racconto

Per “Insoliti Viaggiatori – Viaggi per Umani” un racconto di Emilio Radice che testimonia il “lavoro della Terra”


Per questa serie di racconti-interviste, ho il piacere di presentarvi una storia che ci ha regalato Emilio Radice: un racconto affascinante, emerso dai ricordi della sua giovinezza che fa seguito all’interessante intervista che ci ha rilasciato in una prima e in una seconda puntata. Si tratta di un viaggio tra le colline toscane, in un’estate lontana, dove curiosità e incoscienza si intrecciano con la fragile bellezza della natura. Una storia di avventura e stupore, che lascia il rammarico di chi comprende, troppo tardi, di aver violato una meraviglia. Buona lettura! (lugen)

Il tintinnio della grotta di Emilio Radice

Un particolarissimo rammarico mi segue da quando avevo più o meno vent’anni, testimoniato sullo scaffale della mia libreria da un piccolo frammento tubolare di stalagmite.

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E forse proprio per la sua natura, scintillante e con una memoria di magia, si è legato oggi che è Natale alle parole con cui adesso lo racconto.

Ecco, era una mattina d’estate…, sì sicuramente estate, probabilmente del 1970 o giù di lì…, era una mattina d’estate quando dal borgo maremmano di Giuncarico, il paese di mia nonna Antonia, muovemmo, io Massimo e Mario detto “la cavallina” (suo padre per robustezza era soprannominato “la cavalla”), in quel della Val d’Elsa.

Come mezzo di trasporto mi sembra che avessimo la Fiat 500 beige di mia madre, ma potrei sbagliare. Forse era la 850 del babbo di Max, il mio migliore amico. Comunque sia scendemmo dal colle di Giuncarico giù per la via della Fonte, raggiungemmo la piana tagliata dalla ferrovia, superammo i pescheti della Castellaccia, il ponte sulla Bruna, Ribolla.
Poi salimmo su per Montemassi e, prima di Roccatederighi, piegando a sinistra ci inoltrammo verso Boccheggiano e giù verso Montieri.

Non era la prima volta che andavamo a ficcare il naso da quelle parti. Un po’ per cercar funghi e un po’ per trovar guai, nel nostro raggio di azione era entrata anche l’abbazia di San Galgano, ancora vergine al turismo, dove, come si faceva allora impunemente, tutti i giovani maschi di passaggio (noi compresi) si cimentavano nel tentativo di estrarre la vecchia spada piantata nella roccia.

Ecco, più o meno da quelle parti in quel giorno d’estate andammo a esplorare un bosco e in mezzo a esso trovammo una piccola cava di pietra. Sulla sinistra, a metà altezza della parete di roccia nuda e sanguigna, notammo una rientranza messa a nudo dai martelli demolitori. Era una cavità liscia, venata dall’acqua e dai depositi di calcare, come il vuoto che si può trovare spezzando a metà un bignè.

In noi si accese una insospettata curiosità speleologica e dopo pochi minuti stavamo là dentro tutti e tre. Sì, era una piccola grotta ma sembrava fosse tutta lì. Poi però notammo che dietro una colonna calcarea che scendeva dall’alto si intravedeva un vuoto. Allora spezzammo la roccia e aprimmo il varco. Era un cunicolo strettissimo che si infilava in profondità nella collina.

Andammo a prendere delle torce elettriche e tornammo. Poi provammo a infilarci dentro il buco.

A volte si fanno cose davvero sconsiderate a vent’anni. Io ne ho fatte diverse. Quella fu una. Il cunicolo era talmente stretto che per entrarci bisognava sdraiarsi con un braccio in avanti e l’altro steso sul fianco, per assottigliare lo spessore delle spalle. Una volta infilata la testa, poi, per circa un metro non la si poteva girare senza farsi seriamente male.

Bisognava entrare come uno stantuffo di siringa, spingendosi coi piedi e tirandosi quanto fosse possibile con la mano tesa in avanti. Se uno avesse avuto un attacco di nervosismo in quella strettoia le conseguenze avrebbero potuto essere serie.

Ma eravamo attrezzati di una incoscienza ferma e serena e tutto andò bene. Passato il punto più stretto il cunicolo si allargò in una camera lunga e con la volta curva, a guscio di tartaruga. E lì vidi una cosa bellissima e che è stata anche la fonte del mio rammarico.

Dalla volta al pavimento di questo antro sotterraneo la luce delle torce illuminò tanti fili verticali di cristallo, alcuni dello spessore di un capello, altri appena più grandi e altri ancora, leggermente più opachi, dello spessore di una cannuccia per bere l’aranciata.
Colpiti dalla luce ci rimandavano bagliori di gemme.

E qualcuno di noi tre, forse proprio io, disse: “Che meraviglia!”. E la grotta si riempì di tintinnii, come di sottili vetri che andassero in frantumi. Perché le onde sonore della voce avevano colpito quei fili calcarei di stalattiti e stalagmiti neonate e li avevano mandati in frantumi.

Vedemmo spegnersi quei sottilissimi neon in una cascata di diamanti. Mai mi era capitato in maniera così viva, e mai più mi successe, di essere testimone del lavoro della Terra, ovvero di averla sorpresa, e offesa, mentre costruiva una meraviglia.

E quell’immagine poi sfuggita nel suo stesso tintinnio non me la sono mai più dimenticata. Da quella insolita gita tornai con una tasca piena di frammenti delle stalattiti frantumate, piccoli tubicini di calcare con cui feci collane alternandoli a perle di vetro.

Qualcuna la vendetti pure in giro, quando facevo anche bellissime borse di cuoio. Era il mio periodo hippy. Ma a chi le davo dicevo sempre: “Vedi questo frammento di calcare? Abbine cura, è prezioso”. Ed era incredibilmente vero.

Emilio Radice

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