Il venerdì era per cuocere il pane

La vita del borgo negli anni dell’urbanizzazione vista dagli occhi di un bambino

Venerdì pane. E’ la piccola storia di una comunità rurale vista dagli occhi di un bambino, che settimanalmente si riunisce intorno ad un forno per produrre il pane.

Ognuno ha il proprio compito, portare la legna, accendere e custodire il fuoco, cuocere e riordinare, una lunga notte con l’obbiettivo di soddisfare i bisogni di tutte le famiglie.

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La storia è assolutamente vera per quanto ingenua e mediata dal filtro del tempo che tutto smussa e addolcisce, deve forse far riflettere o semplicemente ricordare quello è oramai solo nella memoria di chi non c’è più.

La foto copertina ne sia dimostrazione. E’ un’immagine proprio dei campi che davano il frumento per il nostro pane. Scattata qualche tempo fa dal drone quei campi sono ormai un incolto in transizione. Nessuno ha più la convenienza a coltivare lacerti di terra vicino la citta ormai di scarsa resa.

Venerdì pane

Questa sera c’è agitazione nella piccola corte, sotto la finestra della mia camera. Come ogni venerdì è arrivato il carretto della legna, uno di quelli da bracciante. E mi sono messo lì, con i gomiti puntati sul davanzale, i pugni piantati nelle guance, con la bocca lente a guardare il manovrare del pesante barroccio.

Schiorre lo muove come se fosse una piuma, ha le ruote snelle, i paletti di guida sul fronte sono modellati, rotondi, della giusta misura che solo due mani forti possono afferrare. Sono sbiancati dall’uso, sulla punta una cordicella li congiunge, da appoggiare sulla vita, per aiutare a superare le salite quando lo sforzo ti piega le braccia.

Lo Schiorre ribalta il carico sul selciato davanti al piccolo edificio e inizia a ordinarlo in una precisa catasta, da un lato le fascine di scopo, dall’altro la legna grossa, io rimango lì affacciato alla finestra della mia camera, noi bimbi dobbiamo stare fuori dai piedi, fino che il forno non è acceso.

Per me quello spazio è magico, è lì che avvengono i riti della nostra piccola comunità, alla corte si accede da uno stretto vicolo. Sulla destra, entrando, un lavatoio alimentato da un pozzo, a sinistra, due piccoli magazzini, in cima la strada finisce in una quadrata piazzetta, circondata da basse case; all’interno di questa, l’angolo in basso è occupato dalla struttura del forno, un tetto a capanna con la gronda a filo della strada copre la bocca, il pane va cotto in tutte le stagioni che piova o ci sia il sole.

Nilde traffica con le fascine, le ripone nella capiente bocca, le incendia, poi dopo un po’ infila la legna più grossa.

Scaldare questo antico forno richiede tempo, e cura, si controlla la volta, il colore dei mattoni, che il calore rende roventi.

La mamma mi chiama, la cena è pronta, corro, la carta moschicida attaccata al lampadario ha fatto le sue vittime, alcune mosche appiccicate a quella strana melassa ancora si muovono, le osservo fino all’ultimo movimento mentre la vita le lascia.

La cena è finita il letto mi aspetta, sbircio la corte che ora è buia e quieta, sotto il lenzuolo leggero, il sonno arriva all’istante.

Al mattino presto sono già cominciate le operazioni di cottura io sono troppo piccolo per assistere a quello che accade prima del levare del sole, mi sveglia l’odore del pane, ormai il rito è compiuto, le donne portano via quanto necessario per la settimana, rimane solo un’ultima consuetudine, la chiara sbattuta con lo zucchero.

Allo spegnersi del forno viene messa su una teglia, io corro giù per le scale, a piedi nudi, questo il mio momento, in trepidante attesa aspetto i bianchi dolci spumini, appena pronti li giro tra le mani ancora bolliti, avvicino la lingua, per rubare tempo all’istante in cui la croccante spuma si scioglie dolce sulla lingua golosa.

Nilde vestita di scuro, mi guarda seria, poi sulla mia felicità si scioglie in un sorriso.

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