E soprattutto ho capito soprattutto come funziona l’opinione pubblica
Non è una frase nostalgica. È una sintesi. Una frase che contiene dentro il cambiamento dello sguardo. Quando sei piccolo tifi per quelli col cappello bianco. Poi cresci e capisci che non c’è mai solo un buono e un cattivo, ma ci sono narrazioni, cornici, immagini, montaggi. E capisci anche che ciò che ti colpisce non dipende da quanto è vero, ma da come te lo raccontano.
Questo non è un articolo di parte. Non difende né accusa, non giustifica né condanna. È uno sguardo su come — nelle nostre società democratiche — il racconto della guerra viene confezionato, distribuito e assorbito, e su come ciò che chiamiamo “opinione pubblica” reagisce: in modo prevedibile, spesso ingenuo, raramente autonomo.
Due guerre, stessa brutalità, stesso sangue, stessa tragedia. Eppure, una ci ha coinvolto molto (Ucraina), l’altra molto meno (Gaza). Perché? Non perché ci sia più o meno morti. Ma perché una è stata raccontata per colpirci, l’altra no.

Le emozioni non sono spontanee, sono costruite
L’empatia non è automatica. È selettiva, culturale, condizionata. Lo sanno le neuroscienze, lo sa la comunicazione, e lo sa chi gestisce il consenso.
L’opinione pubblica, nei regimi democratici, non viene forzata: viene orientata. Non si impone un pensiero. Si prepara una narrazione. Si costruisce una scena in cui lo spettatore si commuove come previsto.
La tragedia, per colpirci, deve avere la giusta struttura narrativa. Sennò resta rumore.
L’Ucraina ci è stata resa vicina
All’inizio della guerra in Ucraina la reazione pubblica fu immediata: bandiere, lacrime, sostegno, coinvolgimento. Ma l’Ucraina non era, di per sé, parte di “noi”. Culturalmente è uno spazio ibrido, storicamente non ha condiviso i grandi passaggi identitari dell’Europa occidentale.
Eppure ci è stata resa simile. Non per storia, ma per narrazione. Zelensky vestito sempre allo stesso modo — la felpa militare, lo sfondo scarno — non era spontaneità: era strategia comunicativa. Le metropolitane usate come rifugi, le madri con i bambini, la neve, il pathos: tutto evocava il nostro immaginario.
E soprattutto: ci faceva comodo sentirla “nostra”. Consolidava un’identità, costruiva un nemico, giustificava alleanze. Non era prossimità geografica. Era prossimità emotiva indotta.
Gaza ci resta lontana
Gaza invece disorienta. È più difficile da raccontare, non offre un frame unico, non si presta facilmente a un’identificazione binaria. E allora si insiste sull’impatto emotivo: ospedali colpiti, famiglie sterminate, bambini morti. Ma è uno sforzo che non funziona fino in fondo. Perché sotto cova un altro pensiero, raramente detto ma largamente condiviso: “Tanto sono musulmani. Sono pericolosi. Alla fine Israele fa anche il lavoro sporco per noi”.
È un pensiero inconfessabile, ma operativo. E quindi per neutralizzarlo, si alza ancora di più il volume emozionale: si punta tutto sui bambini, sulle piccole bare, sui numeri. Il bambino diventa la figura-chiave della comunicazione. Non perché genera empatia reale, ma perché è l’unico simbolo in grado di evocare qualcosa anche nella mente più distante.
Non è immedesimazione, ma riflesso condizionato. Un modo per forzare una reazione che altrimenti non arriva. Ma anche qui, il risultato è ambiguo. La distanza rimane.
L’opinione pubblica non sente: reagisce
E qui arriviamo al punto. L’opinione pubblica non è un soggetto morale. Non è nemmeno un soggetto. È un corpo molle, reattivo, esposto a ciò che viene mediaticamente impacchettato per emozionarlo. Non seleziona, non indaga, non sente da sé. Si commuove quando è previsto, si indigna quando è autorizzato, dimentica quando è utile che dimentichi.
I comportamenti pubblici sono spesso fake behavior: appaiono autentici, ma sono prodotti narrativi. Non c’è consapevolezza. C’è solo l’eco di ciò che si è visto e sentito dire.
Il mio mestiere non è indignarmi
Chi scrive non prende parte. Non stabilisce chi ha ragione o torto, non sposa cause. Il mio lavoro è osservare ciò che sta dietro ciò che si vede. E in questo caso, il dato è chiaro:
• Il dolore non nasce da sé.
• L’indignazione è programmata.
• Le emozioni collettive non sono indice di coscienza, ma di comunicazione efficace.
E questo non dipende da una propaganda feroce, ma da una struttura culturale. Nei sistemi democratici, la spinta non è coercitiva, è semantica. Ci viene suggerito cosa provare.
E allora, prima di esprimere un dolore collettivo, converrebbe porsi una domanda semplice: “Questo dolore che provo… è mio davvero? Mi è stato suggerito? E se lo dico, lo sento davvero o lo sto solo recitando?”
Perché il dolore vero — quello profondo — nasce dal legame intimo, dall’identificazione piena. Se quella manca, il dolore non si prova: si dichiara. Ed è così che nasce quella che possiamo chiamare una dissonanza semantico-cognitiva: si esprime un’emozione che non corrisponde a nessun sentire reale.
Non è finzione deliberata. È funzionamento umano. Ma è da lì che si capisce che l’opinione pubblica, più che sentire, recita e gravemente senza sapere. “Il valore di un uomo si calcola secondo la quantità di verità che è in grado di sopportare — di dire”.