La ciabatta di nonna Serafina

Ricordi di una vita precedente: gli anni ’60 a Siena in un insediamento rurale delle Masse

Sulla scorta di altre piccole storie di un’epoca che oggi sembra così lontana, vi voglio raccontare di un rito di buon auspicio che mia nonna faceva ogni volta che lasciavamo la sua casa, un piccolo seme di memoria che mi accompagna ogni qualvolta intraprendo un nuovo viaggio.

Era forse il lunedì di una tardiva Pasqua, o una tiepida domenica di primavera, non ricordo; di fatto mi stavo allontanando dalla piccola villetta a un piano dei nonni, strascicando i piedi sulla ghiaia del viale.

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Con la coda dell’occhio percepivo la sagoma della nonna, stagliarsi nitida nella cornice della porta, mi appariva altissima, con quella montagna di capelli che le facevano crocchio sulla testa.

Avevo quattro, o forse cinque anni, con passo svogliato, ultimo della fila, camminavo dietro al babbo, alla mamma e a mia sorella, quello era il triste momento dei saluti, lasciavamo Monsummano per tornare a Siena.

Proprio nel momento in cui lo schiocco sanciva la chiusura degli sportelli, l’accensione del motore, mia sorella cominciò a gridare “la ciabatta, nonna, la ciabatta”.

Lei sorridente esce sotto il loggiato e con un gesto ripetuto mille volte, prende la ciabatta da un piede, zoppicante fa finta di inseguirci e la lancia nella nostra direzione.

Felici, ridiamo dello scampato pericolo. Come avessimo compiuto chissà quale marachella.

Solo allora il babbo ingrana la marcia e fila via.

Il rituale di buon auspicio è compiuto. Con i gomiti puntati sulla cappelliera, la testa tra le mani, guardo la claudicante figura venire al centro del viale, a recuperare la calzatura e a salutarci con ampi gesti della mano.

Io rimanevo lì immobile, con gli occhi sulla sagoma che si faceva piccina, man mano che l’auto si allontanava fino a quando imboccata la statale spariva dietro la curva.

Ora, giù seduti, dice mia madre. Solo allora la mia attenzione si spostava sul ciambellone, posto con religiosa cura tra me e mia sorella, era il regalo del nonno, lui era il cuoco della famiglia. Lo splendido profumo di zucchero e scorza di arancio aveva già saturato l’abitacolo.

Fremente mi pregusto una fetta del semplice dolce. Per consumarla ho sempre avuto un mio piccolo rito. Per farlo durare di più inizio a mangiarla da sotto, a piccoli morsi, la erodo lentamente, lasciando la zuccherosa crosta per ultima, come per un consolante ultimo morso.

Solo allora, stanco, felice mi addormentavo rannicchiato sul sedile.

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