La ricciola dell’Affrichella

Cose d’altri tempi: cento miglia nautiche con mezzi arretrati per la soddisfazione di una pescata

Stamani mi sono svegliato presto; volevo andare a correre con una temperatura accettabile. Di soprassalto ho aperto gli occhi pensando di non aver sentito la sveglia. Tastando il ripiano del comodino, ho recuperato gli occhiali e, gettando lo sguardo sulla mensola, mi sono accorto che l’orologio segnava le cinque.

“Volevo andare presto, ma non così”, mi sono detto. La sveglia suona tra un’ora ed è ancora l’alba. Dormi!

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Le braccia e le gambe, pronte a riprendere l’uso, si sono rilassate lungo il corpo, come avessero perso pressione. Ora giacciono lì, inerti. Con gli occhi fissi sulla parete, cerco di spegnermi, provo a ritrovare il filo del sonno.

Immobile, ancorato al letto, poso lo sguardo sui raggi di luce che filtrano dalla finestra. Gettano un’ombra che taglia a metà le colorate scatole di cartone riposte sulla libreria. Sono quelle dove custodisco le cose a me care; le osservo, ma molte non ricordo nemmeno cosa contengano.

Sono in bell’ordine sullo scaffale; una sola appare spostata, sembra venirmi incontro come per dirmi: “Aprimi”.

Mi siedo sul letto, sfilo la scatola dalla mensola e apro il coperchio ornato con lucide borchie di metallo. Dall’interno sale un odore acuto di vecchia carta polverosa. Dentro, decine di foto ingiallite ancora da riordinare.

Sono quelle che ho recuperato da casa di mia madre quando ho dovuto fare lo sgombero, quelle a lei più care, tutte di quel suo scavezzacollo di figlio.

Una in particolare mi ha colpito, mi ha portato veramente lontano nel tempo. Scattata cinquanta anni fa sotto il pelo dell’acqua, in un luogo magico: il Faro dello Scoglio d’Africa. Avevo diciassette anni.

Non pensate a esotici luoghi: lo scoglio affiora da un basso fondale a circa cinquantacinque miglia tra la costa della Toscana e la Sardegna. Intorno, il nulla più assoluto. Montecristo, l’isola più vicina, è a dodici miglia; per arrivare in Sardegna, dritto per dritto, ne mancano ancora trenta.

Io sono lì, sott’acqua, con una ricciola in mano. Mimmo, un caro amico prematuramente scomparso, mi aiuta a riportarla in superficie.

La barca di Vittore, una scialuppa riattrezzata che era stata parte di un vascello demolito

Avevo sostenuto una furibonda lotta con il grande pesce per catturarlo durante una lunghissima apnea. Ero sceso così in profondità che ora sentivo gli occhi schizzare fuori dalle orbite. Svanita l’adrenalina della lotta, la risalita sembrava infinita; ogni energia mi aveva abbandonato.

Da ragazzo ero un romantico: mentre gli altri usavano le bombole per pescare, io lo facevo in apnea. “Una chance al pesce va data”, mi dicevo.

Per raggiungere l’Affrichella, con due effe, così chiamavamo lo scoglio, partivamo la sera, al buio, e impiegavamo tutta la notte con la vecchia barca ricavata da una scialuppa di una grande nave demolita.

Vittore, padrone della barca, e mio mentore, mi aveva insegnato tutto sulla pesca. Per lui nutrivo un’ammirazione viscerale. Per conservare il pesce che speravamo di prendere, aveva disposto in un angolo dell’imbarcazione un vecchio cassone di un frigorifero in disuso, con all’interno una grande barra di ghiaccio, che recuperavamo nel pomeriggio, prima della partenza, al mercato del pesce.

Durante il viaggio stavo rannicchiato su una panca, nel mio sacco a pelo. A turno ci davamo il cambio al timone; dovevo farlo anche io, che ero il più giovane. Tenevo la barra guardando le stelle, ascoltando il ritmico rumore del motore, attento che la bussola segnasse sempre duecentotrentasette gradi (mi sembra di ricordare che questo fosse l’angolo). Quella era la consegna che mi era stata data.

L’alba in mare è sempre stupenda. Il piccolo faro della secca sale sul pelo dell’acqua di pochi metri, una sottilissima striscia di roccia gli fa da base. Con la sua luce ci ha guidato nell’ultimo tratto, come fosse una stella. Ora, basso sull’orizzonte, il suo lampeggiare appare fioco, disperso nel nuovo giorno.

Con questa immagine nella mente vado a correre, portandomi dietro la mia Ricciola.

Tornato, ancora sudato fradicio, mentre tento di fermare le gocce di sudore che nemmeno la doccia ghiacciata è riuscita a calmare, riapro la scatola dei ricordi. Stamattina avevo intravisto la foto della piccola scialuppa, recuperata dalla demolizione di un grosso bastimento, con cui nella lontana estate del ’75 andavamo a pescare: la barca di Vittore.

Guardandola oggi, sembra incredibile poter percorrere, con quel guscio di noce, più di cento miglia nautiche per raggiungere l’Affrichella, tra andata e ritorno, senza timore, affidandoci a semplici strumenti di navigazione: una bussola, uno sfiatato motore, uno scafo di acciaio rivettato che forse aveva più di cinquanta anni, dove era più la ruggine a tenere insieme le parti piuttosto che i vetusti chiodi ribattuti.

Oggi ci avrebbero presi per profughi, fuggiti chissà da quale disastrosa guerra, e sicuramente avrebbero cercato di respingerci sulla battigia.

Ma che fantastiche, infinite estati! Tornavamo salati, puzzolenti di nafta, e facevamo pipì dalla poppa, stando in piedi in precario equilibrio sulla spalletta della nostra splendida, improbabile imbarcazione.

Alla prossima.

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