La Valle di Orkhon

Settimo appuntamento con le avventure e le disavventure di un povero viaggiatore nella steppa mongola

Nell’episodio precedente ero arrivato a Kharkhorin, nel cuore storico della Mongolia.
Oggi vi porto ancora più dentro: nella valle dove la Storia si è scolpita nella pietra, e dove l’equilibrio tra uomo e natura sembra ancora possibile…

Il giorno che ho visitato la Valle dell’Orkhon, se ne avessi ignorato la storia, avrei potuto semplicemente dire che ho attraversato una valle di oltre mille chilometri, serpeggiante tra colline, colate laviche e distese erbose che sembrano non avere fine.

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Il fiume non ha argini imposti: si muove come vuole, creando meandri e piccoli stagni. La valle è completamente intatta, se non fosse per qualche gher che punteggia qua e là le sponde. Pastori conducono yak, pecore, cavalli come mille anni fa.

Il silenzio è rotto solo dal vento e dal galoppo distante di qualche animale. Non ci sono recinzioni. Non ci sono strade asfaltate. Solo orizzonti.

La Valle dell’Orkhon non si lascia raccontare. Si distende sotto il cielo come se il tempo non l’avesse mai toccata. Il fiume non segue regole. E nemmeno l’uomo. Solo tende bianche, e mandrie libere, come lo spirito di chi qui vive e passa.

Per capire davvero quanto questa valle significhi per i mongoli, basta ricordare una frase ripetuta nei secoli: “Chi possiede la Valle dell’Orkhon possiede la steppa. Chi possiede la steppa può cavalcare verso il mondo”.

Ma quello che vedo è un mondo che non si lascia comandare. Qui è l’erba che decide dove crescere, il vento che traccia i sentieri, il fiume che cambia strada ogni anno. E forse chi vive qui non cerca di comandare, ma semplicemente ascolta.

Settecento anni prima di Gengis Khan, qui nacque il Khaganato Turco, a quasi 6.000 chilometri dall’attuale Turchia. I Turchi non vennero da lontano. Nacquero qui, in questa valle oggi silenziosa. E qui fu inciso per la prima volta il loro nome: Türk. Non su pergamena, ma nella pietra: “Finché il Cielo Blu regnerà, finché vi saranno montagne e fiumi, il popolo Türk vivrà”.

Il titolo di Khagan era superiore a quello di Khan: il Khagan era il re dei re. I Göktürk, i “Turchi celesti”, parlavano una lingua turca antica. Se Gengis Khan fu il genio politico e militare che portò le steppe al dominio globale, i Göktürk furono i padri simbolici e spirituali di quell’universo nomade: i primi a dare voce scritta a un popolo senza città, ma con un’identità.

L’accesso alla valle non è certo agevole. Prima di entrare in questa meraviglia — oggi Patrimonio UNESCO — ho dovuto attraversare un lungo tratto d’acqua. Il fango sommerge la pista. Cammino su ciottoli rotondi, dentro un acquitrino. Andare avanti è un atto di fede: non avevo idea di cosa le mie ruote avrebbero trovato. Spiriti ancestrali sembravano viaggiare con me, nascosti tra le rocce consumate dal vento. Ero attratto, quasi ipnotizzato, da tutto ciò che avevo letto… e da ciò che vedevo.

La tradizione vuole che chi possiede la valle, insieme alle montagne che la circondano, abbia una forza divina, e venga considerato il leader spirituale dei popoli turkic.

La giornata è splendidamente baciata dal sole. Mentre mi addentro nella valle, è facile comprenderne la magia: appare intatta. Nessun segno permanente dell’uomo. Nessun muro, steccato, costruzione. Nulla disturba il fare della natura: il vagare libero del fiume, le gher dei pastori che si spostano con le stagioni, inseguendo le greggi.

Passo accanto a un piccolo accampamento. Solo tre tende. Rallento per osservare le loro scene di vita quotidiana. Due uomini stanno squartando un montone. Una donna accudisce due bambini. Un ragazzo corre, a piedi nudi, inseguendo un gregge attraverso i prati.

Mi fermo mille volte ad ammirare il paesaggio: le rocce, il verde, il fiume. Sono in mezzo a una immensa prateria. Se non fosse per le gher, potrei pensare di essere l’ultimo uomo sulla Terra.

In lontananza scorgo un cavaliere. Cavalca veloce verso di me, a petto nudo. In mano ha un lungo bastone con un cappio di corda: lo usa per catturare il bestiame. Sul polso sostiene un falco da caccia. L’animale ha le ali aperte, sembra annusare l’aria. Poi, con un ampio gesto, l’uomo lo lancia: il falco si alza rapido nel cielo, gli vola vicino. Una scena di rara bellezza.

Sorpreso, si gira. Per quanto io cammini piano, il rumore della moto deve averlo incuriosito. Mi scruta. Accenna un saluto. Timido, ricambio muovendo la mano.

L’uomo si avvicina. Mi fermo. Spengo il motore. Non voglio disturbare la sua caccia. Lancia il cavallo al galoppo, mi gira intorno, poi riparte. Mi domando cosa potrei dire di utile a una persona che riesce a vivere in un ambiente così primitivo e ostile. Io, senza le mie protesi moderne, non sopravvivrei un giorno.

In alto, nella volta del cielo, altri rapaci volano in cerchio. Scendono a spirale. Alcuni si lanciano in picchiata. Non sono io la preda. Ma decine di piccole marmotte, che cercano scampo saltando veloci nelle tane: al rumore della moto, forse anche al fruscio delle ali.

Lungo un sentiero erboso, non credo ai miei occhi. Un’aquila, alta come un bambino, riposa su una pila di sassi. Guardo meglio: poco distante ce ne sono altre tre, forse quattro.

Si lasciano avvicinare. Poi, con fare sdegnoso, sbattono le ali. Prendono una breve rincorsa. Maestose, si alzano in cielo. Non fuggono. Mi volano accanto. Un brivido mi percorre la schiena. Chissà se mi stanno prendendo le misure. Io, predatore di città, ora forse… sono la preda.

Ovunque ti giri, animali punteggiano la piana: mucche, yak, cavalli, pecore, capre. Il cielo è pieno di uccelli. Attraverso un piccolo acquitrino. Il fondo duro mi grazia: mi permette di passare. Arrivo alla sponda sassosa di un torrente. Mi ritrovo in mezzo a un branco di yak, che si muovono quieti nelle acque basse. Al mio passaggio appena girano la testa. Mi osservano. Non sembrano spaventati.

All’orizzonte, nubi nere, gonfie di pioggia, mi minacciano. Farsi sorprendere qui, a decine di chilometri da un solido riparo, potrebbe essere un grande problema. A malincuore giro la moto. Percorro un sentiero che risale le colline. Mi allontano.

Sono estraneo a questo splendido equilibrio tra uomo e natura. Qui tutto è perfetto. Semplice all’apparenza, complesso da lasciarti sgomento. Mentre mi allontano, vorrei cancellare la traccia dentata che segna il mio passo. Non aggiungo parole. Non serve. Nulla può descrivere la bellezza che mi circonda.

La Valle dell’Orkhon è uno dei luoghi più profondi e simbolici della Mongolia. Non solo una meraviglia naturale, ma il cuore storico e spirituale del Paese. Un altro piccolo racconto, immenso per il mondo che ha generato. Se avrete ancora voglia di seguirmi, ne ho altri. Al prossimo lunedì e…

Se tutto è andato bene allora nulla è andato bene. Stay Wild Stay Shanti.

(7 – continua)

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