La vittoria di Sinner e l’Italia assente: potenza, lucidità e un Paese che non c’è

Jannik Sinner ha vinto Wimbledon. Un evento storico, mai accaduto prima. Una partita certamente significativa, forse non spettacolare nel senso classico del termine — niente voli eleganti alla Federer o leggerezze danzanti alla Edberg — ma profondamente rappresentativa del tennis moderno. Fisicità, velocità, potenza. Il pathos, più che la bellezza, è stato il cuore del match.

Dal punto di vista mentale, osservato con occhio professionale, ciò che ha colpito maggiormente è stata la stabilità. Non tanto — o non solo — la qualità dei colpi, ma la continuità psicologica. La concentrazione di Sinner ha oscillato pochissimo lungo l’arco dei quattro set. Non è un dato banale: mantenere un’attenzione costante su un palcoscenico del genere, contro un avversario come Alcaraz, capace di strappi imprevedibili, è forse la chiave reale della vittoria.

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La partita di ieri ha raccontato il dominio della stabilità. A mio parere la stabilità è la chiave sempre e di tutto. Alcaraz ha mostrato fiammate — lo sappiamo, le sue partite sono spesso “montagne russe” emotive e atletiche — ma la variabilità interna dei suoi stati attentivi è stata maggiore. Sinner, al contrario, è rimasto nel match. Ha retto mentalmente, non solo nel senso di “non cedere”, ma nel senso più tecnico: ha mantenuto una struttura di attenzione funzionale, orientata al compito, con minime oscillazioni.

Colpisce spesso, in casi come questi, la discrepanza tra ciò che accade sul campo e la narrazione che se ne fa in diretta. Le telecronache, obbligate per ragioni di ritmo e spettacolo, oscillano costantemente: ogni punto diventa un turning point, ogni errore un dramma, ogni game una resurrezione. Ma chi ha l’occhio per leggere il linguaggio corporeo, la gestione del tempo, le reazioni a un punto perso, vede altro. Vede, ad esempio, che ieri Sinner non è mai davvero uscito dalla partita. È rimasto dentro il suo copione anche in qualche momento complesso con un’efficienza da numero uno.

Ed è da numero uno anche la macchina che lo circonda. La questione della pomata Clostebol, emersa nei mesi scorsi, avrebbe potuto destabilizzare molti. Ma il team Sinner ha reagito in modo chirurgico e spietato. Le figure ritenute responsabili dell’errore — veniale nella vita comune, ma non tollerabile in un sistema sportivo di vertice — sono state immediatamente rimosse. Senza esitazioni. Lo stesso fisioterapista, pare, è stato eliminato con un secco comunicato, per aver rilasciato dichiarazioni seppur generiche sul piano di preparazione dell’atleta. È il segnale di uno staff che non ammette zone grigie: o si è dentro il protocollo o si è fuori. Nessuna eccezione. Nessuna indulgenza. Cozza un po’ (fortunatamente) con l’immagine parrocchiale che a volte si dà di Sinner. In Italia queste immagini patetiche e deamicisiane, si sa, piacciono! Ma Sinner non è fortunatamente un chierichetto.

È questa la lezione più sottile, ma forse più utile da osservare per chi lavora nella performance: per vincere oggi non bastano il talento e la motivazione, serve una macchina organizzativa lucida, rodata, regolata. Con ruoli e confini chiari. E soprattutto: con la capacità di tagliare fuori, senza sentimentalismi, ciò che può indebolire la traiettoria di successo. In Italia questa cultura è debole, debolissima. Non abbiamo familiarità con le regole interne condivise e rispettate. Si procede un tanto al chilo. Abbiamo l’abitudine a una tolleranza inefficiente, al “vabbeh, dai”, all’indulgenza che diventa fragilità strutturale.

Infine, un’osservazione civile — che non è marginale. Alla finale era presente il Re di Spagna, venuto ad assistere alla partita del suo atleta, Carlos Alcaraz. In tribuna, nessuna rappresentanza dello Stato italiano. Nemmeno un sottosegretario di passaggio. Nulla. Il primo italiano della storia a giocarsi la possibilità di vincere Wimbledon, e il Paese era assente. Ma quale Paese? È la fotografia definitiva di ciò che siamo: un Paese che si emoziona a parole, ma non sa esserci nei momenti storici. Che non ha una cultura della rappresentanza quando serve, e che soprattutto non sa riconoscere il valore simbolico della presenza.

Era il caso, forse, di mandare un segnale. Di esserci. Ma le tribune erano vuote. D’altro canto, vedendolo in TV, trovarla… in Italia una figura adatta. Meglio giocare nel cortile di casa.

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