Il ghiaino è impossibile sulla strada. Davanti a noi una storia inquietante: duecento operai che si vuole avvelenati per non pagar loro lo stipendio
In altri miei articoli vi ho raccontato come spesso mi lasci trascinare dai racconti. La Patagonia era un sogno che coltivavo fin da ragazzo, dopo aver letto Patagonia Express di Sepúlveda, un libro capace di dipingere questi luoghi con un misto di poesia e realtà. Negli anni, però, non mi sono fermato lì: ho scoperto mille altre storie che mi chiamavano verso questa terra estrema, ma ce n’è una che mi ha lasciato di stucco.
Conoscevo già la durezza di questi luoghi, ma la storia dell’Isla de los Muertos mi ha tolto il fiato.
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In Patagonia, lungo le sponde del fiume Baker, c’è un’isola che custodisce un capitolo oscuro della storia. Di fronte a Caleta Tortel, un piccolo villaggio di palafitte sospeso tra legno e acqua, si trova l’Isla de los Muertos, l’Isola dei Morti.
Correva l’inizio del XX secolo, e in queste terre di fine mondo la natura era un nemico da piegare e una ricchezza da sfruttare. Uomini di Chiloé vennero reclutati dalla Sociedad Explotadora del Baker, una compagnia che prometteva lavoro e un futuro migliore, ma li condannò invece a uno degli episodi più cupi della storia cilena. Circa 200 uomini furono mandati lungo il fiume Baker per aprire una via che avrebbe collegato il Cile alla provincia argentina di Chubut.
Ma la natura non perdona. Il clima spietato, il cibo avariato e l’assoluta assenza di cure trasformarono quei lavoratori in ombre. Lo scorbuto, una malattia traditrice, consumò le loro forze e le loro vite. Morirono a decine, uno dopo l’altro, finché non rimasero solo i corpi e un’isola per ospitarli.
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Alcune teorie, quasi sussurrate, raccontano di un orrore ancora più grande: che quei lavoratori non siano stati vinti solo dalla malattia e dalla fame, ma anche dall’inganno. Si vocifera che i loro datori di lavoro, pur di non pagare i salari, li avrebbero deliberatamente avvelenati. Nessuno sa con certezza cosa accadde davvero. I morti, sepolti sotto croci di legno di cipresso, non possono più raccontarlo. Le croci rimaste sono poche, scure e fragili, come un monito.
Oggi, l’Isla de los Muertos è lì, immobile nella corrente del Baker, a ricordare una verità scomoda: che il profitto e la crudeltà a volte camminano insieme, lasciando solo vento e silenzio a testimoniare ciò che fu.
Forse è questa storia, o forse è solo il richiamo del mare, che mi ha spinto a venire fin qui, a sfidare la Carretera Austral, le sue strade di ripio, e i chilometri che sembrano infiniti.
Dal diario del 20 gennaio – giorno 7
Stamani ho il naso che fa le foglie come un albero a primavera, la pelle sembra staccarsi dalla faccia, ieri il sole era un martello. Voglio partire presto ci attendono quasi quattrocento chilometri di strade sterrate.
Usciti dal paese una via in cemento ci culla, liscia, nuova, perfetta ma dura poco, dieci chilometri ed eccolo il ripio ignorante. Per chi non ha mai percorso le strade in questa parte del Cile per mantenerle qui usano spargere una breccia grossa sul fondo sterrato, così l’acqua drena e la strada è sempre praticabile, questo è vero per le auto, ma le moto?
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Ecco le moto non sembrano essere comprese nella lista, per percorrere la Carretera devi scegliere un solco creato da qualche grosso mezzo, apri il gas e vai, non devi andare piano non devi andare troppo forte io ho trovato un accettabile equilibrio tra gli ottanta e i novanta chilometri ora, devi galleggiare, bilanciandoti in piedi sulle pedane, cercando di evitare i cumuli di ghiaia, che sui lati sono montagne e inevitabilmente ti fanno sbandare.
Con gli occhi fissi sul selciato la concentrazione al massimo entro in una delle strade più belle della Patagonia.
Costeggio il Rio Ibanez alimentato dai nevai del vulcano Hudson, da cui ebbe origine una delle più grandi eruzioni del XX secolo, poi affianco la laguna Verde e discendo il Rio Murta principale affluente del lago General Carrera che gli argentini, bastian contrari, chiamano lago Buenos Aires.
Dopo questa sfilza di nomi, didascalie vuote di magnifici luoghi, come posso esprimere un indice di bellezza, forse attraverso l’acqua del rio Murta, é opalina, lattiginosa, porta giù la farina glaciale roccia tritata finemente in sospensione, ma sui bordi è di un celeste chiaro che sembra finto come dipinto ad acquarello.
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La strada prosegue lungo il lago General Carrera e ansa dopo ansa lo copia, poi non contenta inizia a seguire il Rio Baker con le sue gole e le isole di roccia nel mezzo del fiume.
E’ già ora di pranzo dobbiamo affrettarci vorrei arrivare a Caleta Tortel prima possibile ma i chilometri non passano mai, ho l’impressione che qualcuno abbia cambiato l’unità di misura.
Arrivati al villaggio di Cochrane la strada è interrotta, sul cartello c’è scritto che stanno facendo brillare delle mine, l’addetto che blocca la strada ci dice che sarà chiusa fino alle diciotto e trenta, sono preoccupato, di questo passo arriveremo di buio e non sono troppo felice.
Cerchiamo una taverna per far passare il tempo, ordino uno di quei panini che solo qui sanno fare con carne tagliata fine, bacon croccante, formaggio e due uova affrittellate dentro, una vera bomba, la signora mi chiede se ci voglio la maionese, “certo che ce la voglio” rispondo deciso, la dimensione del sandwich è quella di un piatto, per addentarlo ci vorrebbe una mandibola snodata.
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Verso le cinque qualcosa si muove, forse mossi a compassione per la fila che si è formata ci abbonano un paio di ore e si riparte. La nuvola di polvere in cui ci muoviamo è incredibile. Quando sei in questa situazione devi decidere se sei preda o predatore se inizi forsennatamente a sorpassare per trovare un po’ di aria respirabile o passivamente ti accodi. Io faccio il predatore, ma non sempre è possibile alcuni furgoni viaggiano come proiettili e ti tocca subire.
In mezzo a questo delirio perdo Giovanni, mi fermo ritorno sui miei passi e lo trovo, è caduto pizzicando uno dei monti di ghiaia assassina, nulla di grave ripartiamo.
Poco dopo vedo volare qualcosa di nero nello specchietto, sento un tonfo sordo mi fermo, mi giro e mi accorgo che mi manca una delle borse laterali, la cerniera con le vibrazioni ha ceduto. Riparo con una cinghia provvisoria e mi rimetto in cammino.
Finalmente il bivio per Caleta Tortel, un luogo in simbiosi con il mare, le case sono tutte su palafitte, non esistono strade, ci si muove su passerelle di legno sospese sull’acqua.
La strada non accede al paese si ferma in alto in una specie di piazza, discendo qualche centinaio di gradini fino alla riva del mare, in basso nelle aree di battigia le barche abbandonate in disfacimento sembrano lasciate lì per una serena pensione.
Qui tutto è di legno e ogni cosa ha il sentore del mare.
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Voglio andare fino alla fine della passerella, dove si vede l’Isla de los Muertos.
Durante una grande campagna di abbattimento degli alberi, una delle anonime compagnie che lucravano in questi luoghi nell’800, alla fine delle operazioni, per massimizzare i guadagni e non pagare i salari, uccise tutti i lavoratori e lasciò i corpi a marcire sull’Isla de los Muertos.
Le passerelle sospese sostituiscono le strade di questo paese che guarda verso il mare. Qui, fino a pochi anni fa, nessuno arrivava via terra: la barca era l’unico mezzo di trasporto.
Non riuscirò ad andare sull’Isla de los Muertos, ma voglio vederla almeno dalla spiaggia.
Cammino sulle scricchiolanti passerelle, vedo l’acqua nera del fiordo che, immobile, avvolge i consunti legni che le sostengono. Barche abbandonate a marcire sulle rive hanno qui completato la loro corsa: a me sembra una buona fine per chi per anni ha solcato le gelide acque di questi fiordi.
Il sole ha tinto di rosso il cielo, lo spettacolo che mi regala è incredibile: il rosso e l’arancio hanno incendiato l’orizzonte e le acque. Finalmente, dopo chilometri di scricchiolii e passi incerti, la malridotta passerella finisce su una spiaggia dorata. L’isola è di fronte a me.
Indico l’isola e chiedo al pescatore: ‘È quella l’Isla de los Muertos?’
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“Sì,” mi risponde secco, quasi non volesse nominarla per non disturbare chi lì riposa. Mi fermo sulla riva, seduto con le gambe incrociate, e aspetto che il sole si bagni nel mare, salutando ancora una volta questi luoghi tanto belli quanto duri per le fragili braccia di un uomo.
Peccato sia tardi: ogni passaggio sospeso meriterebbe un’esplorazione, una sosta.
Devo rientrare: sono le ventitré, anche se c’è ancora una flebile luce. La nostra padrona di casa si è raccomandata di rientrare prima di mezzanotte. Qui, allo scoccare dell’ora, spengono tutte le luci: case e percorsi spariscono nel buio, ogni cosa viene avvolta dalla notte.
Il vecchio generatore che dà vita al villaggio viene spento, e tutto sembra rimanere intrappolato nelle gelide acque del fiordo. È come se, ogni notte, Caleta Tortel ricordasse il silenzio eterno dell’Isla de los Muertos, lasciando che il buio conservi i segreti di queste terre estreme. Pertanto, buonanotte dal chilometro mille della Carretera Austral.