L’edicola della sora Italia

Vecchia Siena: al confine di San Prospero, comprarci i fulminanti sognando le automobiline

Stavo studiando il diacronico di un pezzo della nostra città, quello dietro la fortezza, la parte sommitale della costa che guarda San Domenico, il punto da dove un mirabile scenario mostra la cascata di case precipitare in Fontebranda, con in cima il Duomo a coronare il quadro, proprio lì, sul margine, sorge la vecchia edicola della ‘sora Italia.

Un antico chiosco di mattoni, con un aguzzo tetto a capanna, la facciata chiusa da un frontoncino, le scure travi di legno che sbucano dai lati a formare la gronda; l’edificio marca l’inizio di San Prospero.

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Prima che nascesse l’odierno quartiere, questo era il nome del podere che ricopriva l’area, insieme, alla Tinaia, al Poderino, al Poderone e a Capradoro, frazionavano il terreno che degrada verso Pescaia.

Snocciolando questi antichi toponimi sembra quasi di raccontare l’inizio di una favola, viene da dire “c’era una volta là nella Terra di Mezzo un bambino…”

Allora… Se negli anni sessanta vi fosse mai capitato di passare di lì, avreste visto, all’interno dell’edicola, una piccola donna, vestita sempre con un lungo spolverino grigio, i capelli raccolti nella crocca, fermati con delle forcine di cellulosa bruna, quelle quasi trasparenti che si infilavano sinuose tra i capelli.

Io entravo nella sua microbica bottega per vedere le macchinine, dopo aver sostato per una buona mezz’ora con il naso incollato alla vetrina e aver sognato evoluzioni con i modellini di Hot Wells, Matchbox, Majorette.

Con un passo incerto varcavo la soglia, già sapevo di non poterle comprare. Lei allora girava intorno al banco, e mi diceva, “cosa vuoi piccino?”

Mi sembrava buffo detto da lei, avevo otto anni e la guardavo dritta negli occhi, ero già più alto di lei di una spanna; e quando stava dietro il bancone di legno scuro, stracolmo di giornali, era invisibile.

“Voglio un pacchetto di fulminanti, quelli rotondi raccolti attorno all’anello di plastica rossa” rispondevo.

Lei con un passo dondolante andava allo scaffale e mi porgeva una bustina emersa da un cassetto tra mille altre cianfrusaglie, io recuperavo le dieci lire dal fondo della tasca, tra lo spago e le biglie di vetro verdine, quelle con l’elica dentro, pagavo e uscivo dalla penombra della bottega; con gli occhi socchiusi ritornavo alla luce del sole.

Allora ai bambini si insegnava a sparare, non faceva brutto, io avevo già abbandonato Topolino per Tex Willer, e come lui ripetevo “mano ai clarinetti”, “corna di satanasso!”, “tizzone d’inferno”, forse non ne capivo nemmeno il senso ma mi faceva sentire tanto grande.

Oggi il minuscolo edificio è stato trasformato in un piccolo bar con i tavolini attorno, sosta per tanti turisti che sciamano verso la città, ogni volta che mi capita di passare butto l’occhio verso la vetrina con un po’ di tristezza, vuota, senza più i polverosi ninnoli e soprattutto, a fianco dell’edificio, non c’è più la cabina con i pannelli gialli dalla quale quindicenne chiamavo la mia fidanzata.

PS. Il disegno al tratto dell’edicola mi fu regalato da un grande amico scomparso alcuni anni fa: Giancarlo Calocchi uomo e disegnatore fuori dell’ordinario.

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