Liquido viaggio verde verso la città di Gengis

Quinta parte delle avventure e disavventure di un “povero viaggiatore” in Mongolia

Nella puntata precedente ero arrivato a Terkhiin Tsagaan Nuur, il grande lago bianco. Ora la strada del ritorno ci mette subito alla prova: guadi senza fine, moto sommerse e uomini a cavallo pronti ad aiutare.

Finché, tra fango e silenzi, è apparsa Kharkhorin: la città dove un tempo regnava Gengis Khan. Guado su guado arriveremo da… Gengis Khan.

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Il Parco Khorgo–Terkhiin sembra avercela con noi. Sembra dispiaciuto, o forse arrabbiato, per la nostra partenza. Piove. Le nuvole basse e grigie si confondono con l’acqua del lago, che ora ha preso l’aspetto di una grande caldera fumante. Sono stato qui due notti e ogni volta, rientrando la sera, mi ha sorpreso l’efficacia del nostro rifugio: quattro pezzi di legno bastano a tenere calda la gher per tutta la notte.

Il feltro trattiene il calore e, al mattino, la inondi di luce aprendo il foro centrale. Sposti la lunga fune che tiene il coperchio di ruvida tela, lo fissi a un lato come fosse una vela.

Esco fuori mentre diluvia. Sono riuscito ad asciugare le scarpe e, almeno per ora, ho i piedi asciutti. Questo è il punto più a nord dove mi sono spinto. Devo prendere la strada del ritorno. Fedele al mio mantra — mai percorrere lo stesso cammino — decido di tornare indietro facendo un largo giro intorno al vulcano Khorgo Uul (“la montagna che arde”).

La strada di sabbia scura, ora bagnata, è nera come la pece. Risalta in mezzo ai radi fili verdissimi dell’erba. Il fondo, a tratti, è morbido. Poi arriva il duro basalto, lasciato da antiche colate. La moto rimbalza in ogni direzione. Qualche pino stentato sbuca dal magma che ancora sembra fumare. La nebbia bassa si è appiccicata alle rocce.

Più che cresciuti, gli alberi sembrano infissi, tra i sassi bruni, estrusi e contorti, come se anche loro fossero stati appena eruttati. Oggi sarà giornata di guadi. Dovete sapere che qui, appena piove, anche il più insignificante rivolo diventa un torrente tumultuoso. Poi, appena smette, in poche ore il fondo sabbioso della steppa assorbe l’acqua, e tutto ritorna tranquillo.

Io, però, sto camminando sotto il diluvio. Non so come potrò andare avanti. Anche gli yak si sono fermati. Hanno incrociato le zampe sull’erba e sembrano prendere l’acqua come una benedizione. Qui, per tutti gli animali, non esiste una stalla — domestici o selvatici che siano.

Qualcuno gira la testa. Mi guarda passare. Il primo guado arriva presto. L’acqua è grigia, scorre lenta. È una larga lama: il fondo è di piccoli sassi, il punto dove attraversare è chiaro, segnato da tracce di altri mezzi. Rallento.

Con lo sguardo seguo un vecchio UAZ 452 — qui lo chiamano Bukhanka, cioè “pagnotta”, per via della forma. È ancora il mezzo per eccellenza, se vuoi cavartela su questi terreni difficili. Lo conosco. Non so quante volte ho pensato di comprarne uno. Voi potreste chiedermi: per farci cosa?

Vi risponderei: è tecnologicamente anacronistico, ma mi piace la forma. Non c’è nulla di razionale in questo. Ma se fosse per me, tanto amo i vecchi mezzi a motore… e non avessi paura di divorziare, parcheggerei la mia vecchia moto in salotto. Il mezzo ha ruote da 17 pollici. Con la gomma montata, saranno una settantina di centimetri. Devo capire quanto affonda.

Procede a passo d’uomo. L’acqua arriva poco sopra il mozzo: profondità circa quaranta centimetri. Si può fare. La gentilezza dei mongoli è infinita. Passato il guado, l’autista si ferma, scende sotto l’acqua, si piazza nel punto d’uscita, dritto, impalato. Mi indica con precisione la via. Tolgo i piedi dalle pedane e li metto sul paramotore. È una stupidaggine, forse, ma se riesco a non bagnare gli stivali… resterò un altro po’ con i piedi asciutti. Lo ringrazio aprendo il casco e sfoggiando il sorriso più smagliante che posso.

Cantileno: “Ba-yar-la-laa, ba-yar-la-laa”. Vuol dire grazie, anzi: “mi hai dato gioia”, “sono contento grazie a te”.

Quando sbuco a Tariat, trovo una piccola scuola, un ambulatorio, una stazione di rifornimento e un negozio con generi di prima necessità. Servono le gher disperse in questi luoghi. Ritrovo un tratto d’asfalto. Sembra steso e dimenticato, ora è zuppo, rigato da mille piccoli solchi. È pieno di buche — larghe, piccine, profonde da affogarci un uomo.
Con gli occhi grandi come fanali, mi concentro alla guida. La pioggia batte ritmica sul casco. Fatico a vedere. Rinserro le spalle, cerco di trattenere il calore. Per ora, la tuta tiene. I piedi sono ancora caldi.

Torniamo per prati. Certamente più confortevoli, ma non meno insidiosi. La troppa confidenza tradisce subito. il mio compagno, proprio davanti a me, fa una piroetta. Lo vedo sterzare, sbandare, raddrizzarsi, quasi volare. Poi piega. E finisce per guardare l’erba dalle radici. Una caduta come ce ne saranno altre. Niente di grave. L’erba e la sabbia fanno da cuscino. Riparano i nostri errori.

Altri fiumi. Altre persone gentili, che sembrano preoccuparsi per noi. A tratti mi domando: lo fanno per cortesia… o perché sembriamo sciagurati da soccorrere? In un guado, un mongolo a cavallo percorre tutto l’alveo, trova il punto più basso, poi si piazza in mezzo al fiume per indicarci la via. L’acqua sembra non volerci dare tregua. Diminuisce, poi aumenta di nuovo. Sono forse un paio d’ore che vago per prati.

Mi trovo di fronte a un nuovo torrente. Percorro la riva alla ricerca di un guado. Cerco un tratto dove sia più largo: l’acqua distribuita su più superficie dovrebbe essere meno profonda. Intravedo una cresta sommersa di sassi. Mi infilo nell’alveo con qualche sobbalzo.
Lo scarico emette un rumore sordo, sembra affogare il motore. Borbotta. Do gas. Finalmente, la ripa. Mi fermo su un piccolo prato. Mi giro.

Il mio compagno mi segue, ma si scosta dalla linea ideale, forse spinto dalla corrente. Sembra un piccolo errore. Ma la moto, inesorabile, affonda. Corro in aiuto. La solleviamo di peso. Come il Nautilus, riemerge. Il fanale è pieno d’acqua.

Mi guarda. Triste. Come se cercasse aiuto. La piccola moto, così semplice, priva di elettronica, ci viene in aiuto. La tiriamo in piedi, sulla ruota posteriore. Lo scarico vomita ettolitri d’acqua. Strizzata al filtro dell’aria. Colpi di pedivella. Niente. Il paziente è più grave del previsto.

Svuotiamo anche l’olio motore: ne esce un liquido bianco, fangoso. Una maionese impazzita. Rimontiamo la candela. Mettiamo l’olio di scorta. Accendiamo. Qualche colpo di tosse. Il motore borbotta. Parte. Si spegne. Poi risorge.

Ci guardiamo felici. La pioggia è cessata. La steppa ci attende. Quasi a prenderci in giro, dopo tutti quei guadi, alla fine di un prato troviamo un lungo ponte di legno. Attraversa un largo torrente e conduce… in un altro prato. Dal nulla al nulla. Nessun accenno di strada.

Sembra messo lì, con il suo consunto pavimento di legno, come memoria. Sembra dire: poi… faremo anche la strada. Kharkhorin appare all’orizzonte. Un ammasso di povere case. Arrivati.

Spengo la moto. Un vuoto improvviso mi prende. Mi manca il rumore del vento. La faccia, rigata d’acqua. Poi rifletto, mi rincuoro. Sono a Kharkhorin. Anticamente: Karakorum.

Qui Gengis Khan pose le basi della futura capitale dell’Impero Mongolo. Sì… ma questa è un’altra storia, che forse vi racconterò. Anche questa storia si conclude qui. Ma ce ne saranno altre. E come al solito…

Se tutto è andato bene allora nulla è andato bene. Stay Wild Stay Shanti.

(5 – continua)

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