Pochi giorni fa ci ha lasciato Monica Vitti. E da ogni parte si sono levate lodi alla grande attrice, all’interprete di ruoli drammatici e comici, alle sue indiscutibili capacità, all’intelligenza, all’eleganza, all’ironia. Potrei unirmi al coro, ma questo non è il luogo adatto.
“Ora ci parlerà della villa, su progetto dell’Architetto Dante Bini, che il regista Michelangelo Antonioni fece costruire per loro in Sardegna, ai tempi della loro relazione”, diranno subito i miei piccoli lettori,”ci parlerà della sua unicità, della tecnica costruttiva innovativa utilizzata per costruirla.”
E invece no.
Vi racconterò come Monica Vitti abbia cambiato la mia vita, in un pomeriggio di quasi trent’anni fa.
Era appena uscito il suo libro, intitolato “Sette sottane” e lei era ospite di una trasmissione televisiva di cui non ricordo il nome, onestamente. Spiegò la ragione del titolo, risalente a un episodio della sua infanzia in cui aveva orgogliosamente mostrato a un’amica di famiglia i sette strati con cui la madre usava vestirla per proteggerla dal freddo.
Nel corso dell’intervista non potè mancare il riferimento alla sua relazione con Antonioni, di cui la Vitti era compagna di vita e musa ispiratrice. Raccontò che, al tempo della loro relazione, avevano vissuto in due appartamenti situati uno sopra l’altro, collegati da una scala interna. Ciascuno di loro aveva la propria casa, i propri spazi, i propri oggetti.
All’epoca, frequentavo il primo anno dell’università. Benché avessi giudicato folle il discorso che il mio professore di composizione ci aveva fatto durante la prima lezione (<voi dovete pensare architettura, camminare architettura, mangiare architettura>), non potei esimermi dal tradurre quelle sue parole in termini di relazione tra persone e ambiente.
Immaginai immediatamente quei due grandi artisti invitare persone nelle proprie case senza dover obbligare l’altro a subirne la presenza, li vidi liberi di scegliere colori e arredi senza dover scendere a compromessi o adeguarsi ai gusti dell’altro. Me li raffigurai in spazi ognuno diversi, ma uniti simbolicamente dalla loro decisione di stare insieme come fisicamente dalla scala.
Fu per me una rivelazione: esisteva un modo di vivere diverso rispetto a quelli che conoscevo. Esisteva un mondo in cui due identità potevano restare autonome, nell’emotività e negli spazi, pur mantenendo il senso di intimità e condivisione necessari per costruire una relazione sana e felice.
Mi sembrò meraviglioso poter decidere quando sia il tempo per stare insieme e quando sia il tempo per isolarsi, nel più assoluto rispetto sia delle persone che dell’ambiente in cui quelle stesse persone si riconoscono.
Disse alla fine di aver capito che la loro relazione si fosse definitivamente conclusa quando erano arrivati i muratori a chiudere il vano scala. Lo trovai un dettaglio delicato e profondo al tempo stesso, come se si fosse trattato di un’illuminazione, come se la modifica di quello spazio le avesse svelato una verità altrimenti difficile da affrontare.
Ricordo di aver pensato che avrei voluto vivere così.
Non ci sono ancora riuscita, ma non perdo le speranze.
Sarò sempre grata a Monica Vitti per avermi offerto un nuovo punto di vista.
Trovate qui il trailer del documentario realizzato nel 2016 dal Regista Volker Sattel sulla Cupola di Antonioni