“Nel caos nasce l’identità: non priviamo i giovani del caos”

Dialogo con Paolo Benini, medico, psicologo e formatore mentale: tra educazione, filosofia e resilienza, una riflessione radicale su giovani, sport e società

Paolo Benini è una figura poliedrica nel panorama italiano della psicologia applicata e del coaching mentale. Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1979, specialista in Neurologia e Psicologia Clinica.  Dal 1990, è docente di Psicologia Clinica e Psicologia della Prestazione presso l’Università degli Studi di Siena. Ha ricoperto ruoli di rilievo come mental coach per la Federazione Italiana Nuoto, la Federazione Italiana Vela e l’Unione Italiana Tiro a Segno, contribuendo alla preparazione mentale di atleti di alto livello. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, una quarantina, tra cui “Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero” e “Performance. Motivazione, resilienza e autoefficacia”, Benini si distingue per un approccio che unisce rigore scientifico e riflessione filosofica. Prestato alla politica in due distanti, tra loro, occasione si è distinto per decisioni rapide e cultura del fare.

Gli abbiamo rivolto alcune domande che mirano a esplorare la visione di Paolo Benini sul ruolo del caos, dell’educazione e della preparazione mentale nella formazione dei giovani e nella società attuale.

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Giovani e caos. Nel tuo articolo “Giovani, W il caos!”, celebri il caos come elemento vitale per i giovani. Come può il caos diventare una risorsa positiva nella formazione dell’identità giovanile?

“Il caos è l’elemento indispensabile per la crescita autentica. Nel caos, i giovani possono esplorare, sbagliare, creare, senza la pressione di aderire a modelli precostituiti. Oggi viviamo in una società che ha paura del caos, che tenta di soffocarlo con regole, etichette, dispositivi digitali che addomesticano l’esperienza. Ma è nel caos che si impara a pensare. Come scrivo nell’articolo, “il caos è la condizione dell’identità nascente”. Privare i giovani di questa fase significa renderli incapaci di costruirsi davvero”.

Critica alla “brutta gioventù”: Nel pezzo “Brutta gioventù”, critichi l’atteggiamento di alcuni giovani verso la vita. Quali sono, secondo te, le cause principali di questa disaffezione e come si può intervenire?

“La vera causa è la crisi delle agenzie educative, in primis la famiglia, che ha perso la sua funzione di guida. Ma è bene sgombrare il campo da equivoci: la famiglia non è una delle agenzie formative, è la prima, la primaria, quella biologica. La scienza ci dice che nei primi tre o quattro anni di vita si tracciano le grandi linee di fondo della personalità, a parte le componenti genetiche. È in quel periodo che si forma il modo in cui il soggetto leggerà il mondo, se sarà aperto o difensivo, esploratore o evitante. Le agenzie secondarie – scuola, sport, gruppi sociali – arrivano dopo, quando la struttura mentale di base è già parzialmente definita. Pretendere che queste agenzie riescano a correggere ciò che è stato scritto in origine, senza un intervento calibrato e specifico, è un’illusione. Per questo serve una famiglia che abbia direttrici chiare, non negoziabili, ma adattabili nella forma al singolo individuo, mai omologanti. Oggi, invece, vediamo una tendenza all’uniformazione, alla semplificazione, alla replica di modelli standardizzati che ignorano la complessità del singolo. Questo è un disastro educativo. In più, resta il gioco antico dello scontro generazionale: da Platone in poi, i vecchi hanno sempre criticato i giovani e i giovani gli adulti. Cambiano i temi (oggi è l’apatia digitale, ieri era la contestazione, prima ancora la decadenza morale), ma la struttura si ripete. È una matrioska sociale: l’adolescente sfida la famiglia, il giovane sfida la società, l’adulto invecchiato condanna tutto. Rompere questo schema non significa mediare: significa riconoscere la natura ciclica del conflitto e offrire solidità educativa nella fase in cui essa ha valore trasformativo”.

Ruolo del mental coach: Come definisci il ruolo del mental coach nella società contemporanea, in ambito sportivo ma anche al di là dell’ambito sportivo?

“Il termine “mental coach”, così come è diventato oggi, non mi rappresenta. Quando nel 2009 creai il sito thementalcoach.it, il panorama era molto diverso: la figura del mental coach aveva ancora una dignità scientifica, una vicinanza alla psicologia della prestazione seria. Oggi, invece, questo termine è stato svuotato, banalizzato, trasformato in una confezione da supermercato della motivazione facile. In realtà, io sono ben altro: sono medico, specialista in neurologia e psicologo clinico, con anni di studio, pratica e riflessione filosofica. Non mi interessa “motivare” gli atleti o i giovani con slogan. Il mio lavoro consiste nel trasformare i modelli di pensiero, nel portare consapevolezza, autonomia, responsabilità. Formo la mente a reggere la complessità della realtà, non a rincorrere illusioni”.

Filosofia e psicologia: Il tuo approccio unisce elementi filosofici e psicologici. In che modo questa integrazione arricchisce il percorso di crescita personale?

“Viviamo in una società che confonde velocità con intelligenza. Ma oggi non basta pensare: bisogna pensare in fretta, e bene. La filosofia insegna la direzione, la psicologia insegna gli strumenti. Insieme offrono l’unico vero antidoto al pensiero superficiale. La mente è invasa da stimoli. O costruisci un sistema critico solido oppure vieni travolto. Le due discipline, integrate, servono a questo: sopravvivere con coscienza al rumore di fondo”.

Educazione e resilienza: quali strategie educative suggerisci per sviluppare la resilienza e l’auto-efficacia nei giovani?

“La resilienza si costruisce con un addestramento continuo alla gestione dell’errore, alla sopportazione della fatica mentale e alla capacità di ridefinire gli obiettivi. Non è un talento innato, è un processo. Come evidenziato anche in “Performance”, la resilienza si sviluppa attraverso esperienze educative che insegnano il valore dell’impegno, la forza della ripetizione intelligente, e la capacità di mantenere la motivazione senza bisogno di continue gratificazioni esterne”.

Tecnologia e relazioni: Come valuti l’impatto della tecnologia e dei social media sulle relazioni interpersonali e sul benessere psicologico dei giovani?

“Viviamo un attentato informativo permanente. I social media sono progettati per catturare attenzione, manipolare emozioni e alterare la percezione del reale. L’effetto più grave è la perdita di profondità: relazioni superficiali, attenzione frammentata, emozioni veloci e inconsistenti. Dobbiamo insegnare ai giovani non solo a rallentare, ma a scegliere consapevolmente cosa osservano e a chi si connettono. Nella sezione Life&Mind lo descrivo bene: il vero problema non è la tecnologia in sé, ma l’uso inconsapevole e compulsivo che ne viene fatto”.

Esperienze sportive: puoi condividere un’esperienza significativa dal tuo lavoro con atleti di alto livello che evidenzi l’importanza della preparazione mentale?

“Non è solo un caso singolo: l’ostacolo principale che incontro nel lavoro con gli atleti è il peso irrealistico delle aspettative. Aspettative proprie, delle famiglie, degli allenatori, del pubblico. Questa pressione, spesso invisibile ma costante, costruisce una trappola mentale. L’atleta comincia a competere per soddisfare l’immagine che gli altri hanno di lui, invece che per il piacere profondo della prestazione autentica. Il mio lavoro è aiutare a liberarsi da questo fardello, restituendo all’atleta il diritto di esprimersi per sé stesso, non per compiacere il mondo esterno”.

Progetti futuri: hai in programma nuove pubblicazioni o iniziative per promuovere il benessere psicologico e la crescita personale?

“Lavoro sugli stessi temi di sempre: libertà interiore, pensiero critico, gestione della complessità. Mi diverto e cerco di divulgare questi contenuti attraverso i miei libri e i miei blog. Forse, chissà, qualche genitore potrebbe leggere i miei articoli su Life&Mind invece di passare il tempo su OnlyFans o su Tinder”.

Secondo te la politica e le istituzioni fanno abbastanza per affrontare il tema dei giovani? Da “tecnico” avresti qualche consiglio da dare su come potrebbero migliorare il loro approccio?

“Sai che mi avvicino al tema politica con molta prudenza e fastidio. Anche perché sono convinto che si tratta di ambienti in cui si parla molto e si realizza meno. La politica oggi usa parole come “giovani” senza comprenderle, solo come slogan. Ho assistito a qualche scambio politico surreale tipo Alan Ford e il gruppo TNT. Serve silenzio, studio, osservazione, dati, esperienza reale sul campo. Insomma dovrebbe mettere mano un progetto serio e scientificamente fondato. Altrimenti, è solo propaganda mascherata. Aggiungo per finire che io non predico e cerco di vivere secondo quanto ho cercato di descriverti”.

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