Palio un’industria, i fantini si sono adeguati

Considerazioni scientifiche con Paolo Benini sui così detti “Padroni di Piazza”

Professore dai, stiamo per andare sotto Palio, ti va di fare qualche parola sulla comunità dei fantini?

“Come no direttore, mi fa piacere dire la mia, ovviamente per quanto posso, basandomi sulle mie competenze e sulle conoscenze che derivano più da letture e racconti che da un rapporto diretto con questa comunità. La comunità dei fantini, ammesso che si possa considerare unitaria — perché al suo interno ci sono gruppi e interessi diversi — si comporta come tutte le comunità: segue regole interne, spesso non scritte, che con il tempo si sono fatte più complesse”.

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“Il Palio – continua – è diventato un’industria, un po’ perché la spinta generale in ogni ambito va in quella direzione, come vedo anche nel mondo sportivo; ma nel caso del Palio penso sia successo anche colpevolmente, per responsabilità delle amministrazioni, quindi una colpa più o meno consapevole. Nel tentativo di pianificare, organizzare e armonizzare tutto sotto il pretesto della tutela, forse si è finito per peggiorare un po’ la qualità della corsa e dell’ambiente intorno ad essa. Ripeto, questo può dipendere anche dai tempi diversi che stiamo vivendo. Ma di fatto le dinamiche si sono trasformate radicalmente, cambiando la natura stessa del Palio rispetto al passato. Il Palio non è una festa, casomai è un rito. E la ritualità, quella vera, ha profondità. A differenza delle feste. Il Palio è quindi l’apice di una modalità, di uno stile di vita, di una cultura che trova in quei giorni la sintesi. Dovrebbe essere la vita d’inverno che trova sintesi nella corsa d’ estate. Non 4 giorni sospesi nello spazio temporale. Direi che siamo indietro. Le feste poi si fanno per i compleanni”.

Per esempio una cosa che mi hanno insegnato è che per un fantino la cosa più importante è avere la sensazione di “stare nel gioco”, cioè di poter ricorrere in Piazza sfuggendo alle sentenze ultimative… Che ne pensi?

“La sensazione di sentirsi dentro al gioco è fondamentale dal punto di vista motivazionale, non solo per i fantini, ma per chiunque affronti una sfida. È importante però capire cosa si intende per “gioco”: vuol dire sentirsi parte di un progetto, con obiettivi chiari e un percorso che dia un senso di direzione. Nel Palio, questo concetto è molto sfaccettato: ogni fantino può interpretarlo a modo suo — per alcuni significa puntare alla vittoria, per altri farsi notare, e per altri ancora inserirsi in strategie più ampie, anche accettando un ruolo da comprimario al servizio di qualcun altro -. Per restare motivati bisogna sentirsi nel gioco, ma ogni fantino ha un gioco personale, legato alla propria storia e alla dimensione in cui si riconosce”.

“Talvolta le contrade più piccole e con meno risorse costruiscono le loro strategie proprio su quest’aspetto della prospettiva dato che una cosa non potrà essergli mai tolta, cioè di poter correre tanto quanto le contrade più grandi…

“Spesso, diciamo, nel gioco del Palio, nella pianificazione e nella corsa vera e propria, assistiamo a questa ritualità dei mangini, dei capitani, i quali, molto presi e molto investiti nel loro ruolo, fanno pensare — magari senza che loro lo dicano esplicitamente, ma nell’immaginario collettivo — che tutto possa essere pianificato in modo quasi perfetto. Ma effettivamente non è così. La realtà è molto più complessa: le strategie esistono, certo, ma il Palio è pieno di fattori imprevedibili. Oggi, con un business molto più grande rispetto al passato, i fantini cercano opportunità ovunque, e le contrade devono continuamente mediare con questa comunità complicata. Le contrade più piccole, sulla carta, hanno le stesse possibilità teoriche di vincere al canapo; ma è vero che a volte alcuni fantini, già in partenza, sembrano fuori gioco per accordi o situazioni pregresse. Tuttavia, la natura stessa della corsa — con le sue caratteristiche uniche e l’elevata imprevedibilità — può ribaltare qualunque piano, più che in altre competizioni. È proprio questa possibilità di sorpresa che permette a chiunque di sognare, anche alle contrade meno attrezzate. E quando vincono loro fa più notizia perché alimenta la narrativa romantica della piccola che batte le grandi. Ma anche le grandi, spesso, hanno vinto non grazie a una pianificazione impeccabile — di cui però non è mai mancato il racconto — ma per un insieme di eventi che, come già detto in altre occasioni, nel racconto sembrano concatenati alla perfezione, mentre in realtà, nel momento in cui accadono, sono altamente casuali”.

Volendo separare i fantini in gruppi di influenza, dove i big stanno in cima e le promesse in fondo, quanti ce ne sarebbero e come li articoleresti?

“Non ho una conoscenza diretta tale da elencarli con precisione, ma in generale si possono individuare 2-4 fantini che rappresentano i big, per successi e carisma. Poi c’è un secondo gruppo di fantini competitivi, ma meno affermati, e un terzo gruppo fatto di giovani promesse o di fantini il cui vero traguardo, spesso, è già solo riuscire a montare in Piazza. Va anche detto che alcuni di questi ultimi — per consapevolezza personale, ruolo assegnato o mancanza di opportunità — finiscono destinati, e in parte si “condannano” da soli, a un ruolo di comprimari per tutta la carriera. Non so se questa condizione sia giusta o inevitabile, ma come accade per tutti noi, anche i fantini possono restare intrappolati nella dimensione personale che si sono costruiti, e dalla quale poi è difficile uscire”.

E’ più importante la paura di sbagliare di una dirigenza o di un fantino?

“Credo che la paura di sbagliare pesi molto di più su chi è in prima linea, cioè sul fantino. È lui che determina davvero gli equilibri della corsa, più delle dirigenze, e vive la tensione diretta del canapo. Le contrade lavorano a lungo per prepararsi, ma spesso lo fanno con persone che hanno conoscenze limitate di cavalli e corsa. Questo crea un gioco delle parti che è parte integrante del Palio. Ma alla fine, la pressione massima è sul fantino: sbagliare non significa solo una partenza o una traiettoria, ma anche non riuscire a rispettare eventuali intese o aspettative. I fantini migliori, come nello sport, sono quelli motivati dal desiderio di vincere, non quelli paralizzati dalla paura di sbagliare: la paura alimenta meccanismi che portano più facilmente all’errore”.

Com’è l’approccio al rischio fisico di un fantino che corre il Palio? In genere si pensava che sia proporzionale al numero di cadute fatte, ma secondo te… ?

“Si fanno molti calcoli sul rischio: è chiaro che più un fantino cade, più aumenta la probabilità di farsi male. Ma esiste anche il caso opposto: una sola caduta può essere quella fatale. La preparazione fisica e mentale è fondamentale per affrontare una corsa così particolare: riduce il rischio perché migliora la gestione del cavallo, dell’adrenalina e dell’evento stesso. Tuttavia, anche il fantino più preparato non può eliminare del tutto la casualità: il rischio non sparisce mai, è solo un calcolo probabilistico. Ed è proprio questo a rendere il Palio unico”.

Senza tirare in ballo i cavalli scossi, al Palio può vincere anche chi non ha il profilo del vincitore?

“Sì, al Palio può vincere chiunque. Anche i big di oggi hanno avuto un momento in cui sono entrati in Piazza come outsider, e hanno vinto la loro prima volta senza un profilo da favoriti. Quella vittoria ha cambiato la narrativa intorno a loro. Se un fantino ha una buona base interiore, la prima vittoria può diventare il motore per ulteriori successi, perché costruisce fiducia, motivazione e credibilità. Ma la vittoria è sempre frutto di un insieme di fattori — tecnici, mentali, casuali — e un singolo trionfo non basta a definire un profilo di vincitore: serve vedere nel tempo se quella capacità si conferma. Può vincere chiunque, ma certo, coloro che attribuiscono tutto alla casualità del momento spesso sono quelli che, probabilmente, si ripetono meno: perché non sviluppano quella consapevolezza interiore che trasforma un episodio fortunato in una vera traiettoria di crescita e continuità”.

Se tu dovessi scegliere un compagno per rispondere a queste domande, chi ti metteresti accanto e perché?

“Direttore, mi dispiace deluderti, ma non mi metterei accanto a nessuno. Nell’eventualità, visto il tipo di domande, mi metterei accanto uno statistico, un esperto di scienza dell’incertezza”.

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