Quando gli arabi furono messi in fuga dalle croci-soldato

Intorno il Lago Sevan in Armenia resti di civiltà diverse insieme alla rude bellezza della natura

In questo articolo inizio una nuova serie dedicata a luoghi insoliti e affascinanti, lontani dai classici itinerari turistici. Per qualche settimana vi parlerò di mete sorprendenti, immerse nella natura e nella storia, dove il tempo sembra essersi fermato. Senza costruirvi un intero itinerario, per iniziare proverò a raccontarvi in due o tre puntate alcune straordinarie giornate passate in Armenia, girando in maniera brada, come piace a me, lontano dalla folla e inseguendo le emozioni che solo luoghi poco frequentati sanno dare.

Un lago di sorprese: Noraduz e i soldati di pietra

Lasciato il piccolo villaggio di Gyulagarak, ho deciso di fare il giro del lago Sevan. Lo percorrerò partendo dal lato sinistro, venendo da nord, quello non turistico, dove non sono presenti le iconiche chiese da cartolina che hanno reso famosi questi luoghi, e le strade sono forse come cento anni fa.

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Inizio il periplo, e sulla punta del bacino, che assomiglia a una grande pera, rimango sconcertato dalla grande quantità di edifici abbandonati. Alcuni, di grandi dimensioni, ricordano le nostre colonie, vagamente in stile razionalista: decine di vuote carcasse di tutte le dimensioni, telai anneriti dal tempo e mangiati dalla vegetazione. Poi tutto sfuma: le case, la strada piena di buche è asfaltata a tratti, come se i luoghi fossero stati abbandonati e dimenticati in un limbo senza tempo.

Voglio vedere il lago da vicino. Dalla strada lo intravedo tra gli alberi, così devio per un viottolo e arrivo fino al margine di una piccola spiaggia. Il blu intenso dell’acqua attrae gli occhi come una calamita. Spengo il motore e ascolto il frangere delle piccole onde.
Non voglio tornare sulla strada. Il GPS segna una piccola traccia e, testardamente, mi metto a cercarla nella bassa vegetazione. Un cancello aperto mi dice che forse sono su una via percorribile.

All’ingresso di una piccola valle, l’erba è così alta che fatico a distinguere il tratturo, immerso com’è in un mare di fieno e fiori colorati. Intorno, per chilometri, non ho incontrato anima viva. La prudenza direbbe di tornare indietro, ma ormai cerco di risalire la collina fino al crinale. Mi fermo sulla sella: la vista del lago dall’alto è magnifica, piccole baie cesellano la costa e il verde dell’erba sfuma nell’acqua trasparente. Il tratturo, ora divenuto ripido, cade giù in picchiata, e i sassi smossi rendono precario l’equilibrio.
Raggiungo nuovamente il margine del lago. Una strada dal fondo sabbioso conduce a un piccolo gruppo di case dai tetti in lamiera. Mi avvicino: devo fare benzina. Il lungo percorso nel parco ha messo in crisi i miei piani, il lato ovest del lago è praticamente disabitato. Un povero negozio si affaccia su una polverosa strada. Chiedo a due vecchi: mi portano sul retro e, a gesti, mi fanno capire che devo aspettare. Un uomo esce dal locale tenendo con una mano due piccoli secchi e nell’altra un grosso imbuto di latta. Inizia il travaso. Ripenso alle parole del nostro noleggiatore: Mi raccomando, solo benzina premium.

Saluto i due vecchi. Mi stringono la mano con una presa forte e ruvida, di chi ha conosciuto solo il duro lavoro dei campi. Li guardo con la coda dell’occhio tornare a sedersi, fermi sotto la grondaia. Sembrano aspettare solo l’ultima fermata della vita.

Attraversando un grumo di case precarie, di un solo piano, l’odore del letame è forte. I contadini lo lasciano essiccare al sole, in uno strato di qualche centimetro, lungo il selciato. Poco più avanti, lo hanno tagliato a quadri e disposto in grosse cataste di brune pagnotte, che ora fiancheggiano la strada. Avevo già visto in India fare lo stesso con gli escrementi di bufalo, che poi venivano bruciati nelle stufe durante l’inverno.

La miseria è sconcertante. Finalmente raggiungo la prima tappa di questa giornata: la piccola chiesa di Makenyats. Sembra abbandonata. Mi avvicino, apro il cancello e le prime khachkar sembrano accogliermi. Un piccolo fiume bagna un lato del cortile, scendendo rumoroso tra i sassi.

Sosto di fronte all’ingresso. Un forte odore di incenso pervade l’aria. Mi affaccio sull’uscio e intravedo un monaco in preghiera. Il tempo sembra fermo da secoli. Qualche candela illumina la scena, un raggio di luce penetra da una finestra rotonda. Il monaco, sentendomi, sembra ridestarsi. Si gira e si avvicina. Mi chiede da dove vengo.

Mi faccio raccontare qualcosa della sua vita: da solo tenta di tenere in piedi questo monastero. Alterna la preghiera ai lavori di muratura e pulizia. Fa anche da giardiniere, tenendo pulito il suolo sacro intorno alla chiesa. Quando non è in giro a consolare le anime, si dedica a tutto ciò. A me sembra un’impresa impossibile, ma la fede, come si dice, muove le montagne. Ha occhi chiari, forti, di qualcuno che ha certa la meta e non si preoccupa dell’energia che dovrà impiegare per raggiungere lo scopo.

Risalgo in moto, sinceramente scosso per la tappa successiva proseguo il cammino verso Noraduz, famoso per il suo cimitero, sul filo di una storia che ho scoperto studiando il percorso. È così curiosa che ve la voglio raccontare.

La leggenda narra di un esercito arabo invasore in avvicinamento al borgo. In vista della collina del cimitero, letteralmente coperta di khachkar, i soldati si arrestarono. In lontananza, scambiarono le brune lapidi immerse nell’erba per un esercito in agguato. Intimoriti, preferirono voltarsi, girare al largo e cambiare direzione. Le mute sentinelle di pietra avevano così salvato il villaggio.

Storia o leggenda, oramai incuriosito, volevo vedere questa distesa di soldati di roccia e verificare il racconto.

Arrivando, il piccolo villaggio rurale appare vuoto, immerso in un mare d’erba inciso solo dalla polverosa strada che, incerta, riparte perdendosi nell’orizzonte.

Khachkar in armeno significa “croce di pietra”. Nel paese se ne vedono ovunque, erette come cippi per commemorare vittorie, amori o per cercare protezione da calamità naturali. Quelle antiche, per la maggior parte, sono realizzate tra il IX e il XVII secolo.
Il Cimitero di Noraduz rappresenta il luogo con la più grande concentrazione di queste steli: all’interno ve ne sono circa mille, grandi, piccole, reclinate, affogate nell’erba tanto da formare un pavimento. La pietra scolpita è bruna, ricoperta di arancioni licheni che saltano fuori come antichi merletti.

Mi aggiro tra le tombe infisse nel prato, condividendo la passeggiata con alcune pecore che brucano, per nulla disturbate dal mio passaggio, cerco di immaginarmi l’esercito in arrivo dalla valle, beh… a me questo sembra un luogo di pace.

Nuovamente mi rimetto in moto, mi lascio alle spalle le iconiche pietre del cimitero . Prima di sera visiterò altre piccole chiese disperse in poveri villaggi, scialuppe di fede in un mare di tempestosa miseria.

PS: Attualmente, dopo la distruzione del cimitero medioevale di Julfa (Nakhchivan) ad opera degli azeri, quello di Noraduz rappresenta la più grande distesa di khachkar. Quale può essere la ragione per cui in un’epoca recente (2006) si distrugga un cimitero medioevale sfugge alla mia comprensione.

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