Volentieri pubblichiamo in anteprima dal periodico Leasing Magazine un intervento in tema di “Società benefit, queste sconosciute” di Divo Gronchi, tra gli anni 1988 e 2000 ai massimi livelli di Banca Mps. Ha lasciato per motivi personali il suo ruolo di amministratore a Banca Ifis nel gennaio di quest’anno e ha iniziato a giugno la collaborazione con la testata diretta da Gianfranco Antognoli con un intervento di chiarimento sulla sostenibilità finanziaria illustrata dal Governatore di Bankitalia.
Prima di inoltrarci nell’esame delle disposizioni relative alle Società benefit, è opportuno ricordare alcuni principi che hanno dominato la visione del primato degli azionisti delle società commerciali, rispetto agli interessi degli altri stakeholders.
Tra le due guerre mondiali, a Chicago, si distinse, dal punto di vista economico, una linea di pensiero con marcata preferenza per il libero mercato. Secondo tali principi, in condizioni di concorrenza, i mercati sono in grado di allocare risorse economiche e distribuire reddito in modo più efficiente rispetto ad altri modelli economici che prediligevano un ruolo più interventista da parte dello Stato.
L’apice della scuola di Chicago si raggiunse nel 1970 con la pubblicazione del Manifesto del capitalismo di Milton Friedman. La sintesi dell’intervento molto chiara si ha nelle conclusioni: «in una libera società c’è una e soltanto una responsabilità sociale nel business – usare le risorse e l’impegno in attività designate per incrementare i suoi profitti quanto è possibile, entro le regole del gioco, che equivale a dire, operare in libera ed aperta competizione senza inganni o frode».
Ovviamente possono essere costituite società no-profit, con obiettivi diversi che devono essere esplicitati; così come gli azionisti unici proprietari dell’azienda possono esercitare la responsabilità sociale utilizzando il patrimonio dell’impresa in quanto non si depauperano altri azionisti.
In sintesi, l’unico scopo di una società commerciale a capitale diffuso, è quello di massimizzare l’utile per distribuirlo agli azionisti in quanto la responsabilità sociale attiene la sfera privata degli individui. Altri oneri sopportati dall’azienda per scopi pubblici, in aggiunta a quelli sostenuti per interventi convenienti economicamente per la stessa azienda, non sono consentiti dalle leggi.
Nel pensiero di Friedman quindi l’onere imposto dal Manager alla società per soddisfare esigenze di responsabilità sociale, equivarrebbe ad imporre tasse a carico dei propri azionisti e decidere in autonomia come spendere le somme, arrogandosi diritti non propri. Lo stesso Friedman aggiunge che talvolta da parte dei manager si ama affermare che l’azienda sostenga costi per l’esercizio della responsabilità sociale dell’impresa quando viceversa tali oneri sono pienamente giustificabili su altri terreni.
Può essere infatti interesse di una grande impresa che opera su un territorio, devolvere utili alla comunità per migliorare la propria reputazione, così come prevedere interventi a favore dei dipendenti per attrarre il personale più qualificato e così via. In questi casi affermare che si sostengono oneri aziendali in virtù della sensibilità verso la responsabilità sociale dell’impresa è window-dressing, cioè una operazione di marketing volta a rappresentare in modo accattivante l’obiettivo delle spese sostenute; tali oneri sono a pieno titolo sostenuti e giustificati nell’interesse stesso della società.
Il pensiero di Friedman è stato dominante fino alla fine del secolo scorso ed ha influenzato le politiche economiche negli Stati Uniti del Presidente Reagan ed in Inghilterra di Margaret Thatcher. Non è la sede appropriata per esprimere un giudizio non contestualizzato negli avvenimenti di quegli anni sul credo della Scuola di Chicago per la quale ciò che è buono per gli azionisti è buono per la Società nel suo insieme, un credo che presuppone il perfetto funzionamento delle regole di mercato.
Gli anni del nuovo secolo, con la prevalenza della finanza sul mercato reale della produzione, con le crisi ripetute per carenza di regolamentazione, per l’inasprimento delle disuguaglianze e le accentuate attenzioni all’ambiente, hanno mostrato intera la fragilità delle teorie liberiste.
Nella legislazione italiana, l’art. 2247 del codice civile mette in evidenza il pensiero economico corrente all’epoca dell’approvazione. Infatti recita: «con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili». Non è previsto il perseguimento di altri valori o interessi. La situazione non è cambiata con l’emanazione del D.Lgs.2003 n. 6; è stato introdotto il principio di continuità aziendale per le società quotate che adottano principi contabili internazionali.
La Legge dispone che la direzione aziendale, in sede di preparazione del bilancio, deve effettuare una valutazione della capacità dell’entità di continuare ad operare come entità di funzionamento. Non viene pertanto in alcun modo influenzato lo scopo della società che è quello di realizzare utili per la distribuzione di dividendi. Qualcuno ha definito l’articolo 2247 c.c. come residuo fossile, alla luce della rinnovata sensibilità degli investitori e dei consumatori verso la sostenibilità degli investimenti e dei prodotti rispettosi della tutela dell’ambiente e più in generale di tutti gli stakeholders (come i dipendenti, i fornitori, ecc.).
Abbiamo già notato che rientra nella responsabilità della società il bilanciamento degli interessi degli shareholders e degli stakeholders. Molti amministratori desiderano essere economicamente, intellettualmente e socialmente parte delle comunità dove operano, non a spese dei profitti aziendali, ma per accrescere il bene di entrambi, della comunità e dell’azienda.
Ovviamente per le imprese redditizie è facile investire per valorizzare sia la reputazione che i prodotti realizzati in coerenza con la tutela dell’ambiente e con l’utilizzo corretto del lavoro umano.
Le difficoltà nascono quando l’azienda riduce l’utile o addirittura opera in perdita. È pertanto opportuno che gli oneri sostenuti per interessi diversi da quelli degli azionisti, siano compatibili con le finalità aziendali; i costi in eccesso possono essere censurati in sede assembleare con responsabilità diretta a carico degli amministratori o dell’organo competente a deliberare le spese contestate.
Per evitare che amministratori nominati successivamente modifichino la politica aziendale di bilanciamento dei diversi interessi o che oneri sostenuti per tale politica possano essere giudicati in eccesso rispetto alle compatibilità aziendali, il legislatore ha sentito la necessità di introdurre nel nostro ordinamento la disciplina delle società benefit.
Le Benefit corporations si diffondono negli Stati Uniti d’America all’inizio del secolo e l’Italia è stata la prima Nazione ad approvare, in Europa, una normativa per il settore. Le disposizioni della Legge 208/2015 (commi 376-384) hanno lo scopo di promuovere la costituzione e favorire la diffusione di società-benefit che nell’esercizio di un’attività economica, oltre lo scopo di realizzare e dividerne gli utili, perseguano una o più finalità di beneficio comune e operino in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interessi.
Le finalità devono essere indicate specificatamente nell’oggetto sociale della società benefit e perseguite mediante una gestione volta al bilanciamento tra l’interesse dei soci e l’interesse di coloro sui quali l’attività sociale possa avere un impatto.
Lo scopo di una società benefit pertanto è creare un vantaggio pubblico; alla direzione ed al management viene richiesto di considerare l’impatto delle decisioni non solo sugli shareholders ma soprattutto sugli stakeholders. La Legge prevede gli standard di valutazione da utilizzare dalle società benefit, le aree di valutazione dell’impatto delle decisioni aziendali, i soggetti responsabili a cui affidare funzioni e compiti volti al perseguimento dello scopo sociale. Prevede altresì l’obbligo di redigere annualmente una relazione concernente il raggiungimento del beneficio comune ed infine il controllo da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
La società benefit che non persegua le finalità previste nello Statuto è soggetta alle disposizioni di cui al d.leg. 2.8.2007 n. 145 in materia di pubblicità ingannevole ed alle disposizioni del codice del consumo in materia di pratiche commerciali scorrette.
Queste di massima le disposizioni legislative, ma gli effetti della normativa non sono ancora del tutto certi, anche perché, pur avendo avuto una diffusione di circa 1.000 società di varie dimensioni non si conoscono ancora riscontri fattuali dei benefici comuni realizzati.
Negli Statuti di due importanti società (Civibank e Eni Gas e Luce) ad esempio si formalizzano principi di supporto al perseguimento degli interessi dei soci e della collettività mediante lo svolgimento, in modo responsabile e consapevole, di un ruolo attivo nella promozione della crescita economica, morale e culturale di tutti gli stakeholders, ma non si indica niente circa la valutazione dell’impatto sociale generato attraverso l’uso di standard esterni di valutazione che rispondano ai requisiti e che abbiano per oggetto le specifiche aree di valutazione indicate dalla legge stessa.
Le norme in sostanza non propongono un ulteriore tipo societario ma, nel solco delle tradizionali categorie, considerano due distinti scopi societari: di lucro (come disciplinato dal Codice civile) e di finalità di beneficio comune (disciplinate dallo Statuto). Gli amministratori devono quindi operare il bilanciamento tra l’interesse dei soci, il perseguimento del beneficio comune e l’interesse delle categorie indicate dalla legge, conformemente a quanto previsto dallo statuto e non più per volontà autonoma.
La nuova disciplina non dispone alcun vantaggio fiscale (ad eccezione di una riduzione dei costi di costituzione o trasformazione della società), né agevolazioni di alcun tipo. Le società che decidono di sopportare oneri di rendicontazione e verifiche sul proprio operato, soggette a sanzioni, lo fanno esclusivamente per l’impegno alla trasparenza del comportamento ed il conseguente vantaggio reputazionale rispetto ai competitors.
L’innovazione è stata accolta da alcuni favorevolmente quale strumento importante per la diffusione della responsabilità sociale dell’impresa, da altri con scetticismo. Nell’attualità esistono già strumenti adottati su base volontaria per interventi di responsabilità sociale, quali i codici etici, quelli di comportamento per le società quotate, per cui la nuova disciplina consolida sensibilità presenti.
Considerato poi che nella nostra realtà sono poche le grandi aziende a capitale diffuso, peraltro con presenza apprezzabile di fondi di investimento tesi a performance reddituali competitive, si dubita che, grazie alle società benefit, si possano destinare a beneficio comune somme in eccesso rispetto alle compatibilità di bilancio, accettabili per il buon successo delle società medesime.
A parere dello scrivente è indubbio che la finalità delle norme sia apprezzabile in quanto allarga lo scopo societario includendo oltre il lucro il beneficio comune.
La reale efficacia della Legge andrà opportunamente verificata quando saranno definiti nel dettaglio e applicati i criteri e le modalità per misurare quanto effettive siano le ricadute sociali dell’attività e quindi i benefici per il territorio latu senso (ambiente, dipendenti, fornitori, ecc.) Pertanto sarà interessante verificare nel tempo le rendicontazioni e la valutazione delle stesse da parte dell’Autorità garante.
Divo Gronchi