Stefano Cipollone, quando le strade ti portano davvero in Malesia

Per “Insoliti Viaggiatori – Viaggi per Umani” la seconda e conclusiva parte dell’intervista dopo il viaggio in “Pegiottino”

E’ stata davvero la Strada di un Sognatore. Partito da Venezia perché doveva ingannare l’attesa di dieci giorni per i risultati di un concorso, nella prima parte di intervista, lo abbiamo seguito fino all’ingresso in Turchia, grazie a documentazioni preparate alla… buona. E qui, il viaggio di Stefano acquisisce proporzioni epiche: dalle montagne dell’Iran alle strade trafficate dell’India, dal Bangladesh al Sud-est asiatico, fino al sorprendente arrivo in Malesia e Indonesia. Un racconto che attraversa i continenti e i confini, ma soprattutto esplora l’inesauribile curiosità umana e la potenza dell’incontro con l’altro.

E quindi? Sei arrivato fino a Istanbul?

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“Sì, sono arrivato a Istanbul a ridosso di Natale. Mi sono innamorato della città, dell’antica Costantinopoli. Mi sono fermato qualche giorno, ma sapevo che non potevo rientrare subito in Italia. Ho deciso di lasciare la moto in Turchia e tornare a prenderla in primavera.
Il problema era trovare un posto sicuro per lasciarla. Non avevo una rete di contatti tra moto viaggiatori. Girando sul traghetto sul Bosforo, ho conosciuto un motociclista turco che è diventato un grande amico. Gli ho raccontato la mia storia, e lui mi ha offerto il suo garage nella parte asiatica di Istanbul. La moto era piccola, quindi per lui non era un problema tenerla. Così, con la promessa di tornare dopo tre o quattro mesi, ho lasciato la moto a lui e mi sono imbarcato per rientrare in Italia”.

Grande. E quindi sei tornato in Italia?

“Sì, torno in Italia perché mancavano pochi giorni a Natale. Rientro in aereo e appena arrivo mia madre mi fa: “E la moto?” Io le rispondo: “Mah, l’ho lasciata lì. Mi sono innamorato di Istanbul, torno a prenderla in primavera”. Lei, ovviamente, all’inizio non capiva: “Ma che cavolo fai? Non concepisco perché d’inverno sei andato nei Balcani fino in Turchia”. Alla fine, ha detto: “Va bene, ma la prossima volta riportala!” Non avrebbe mai immaginato che quel viaggio, iniziato quasi per caso, sarebbe continuato per anni e sarebbe ancora in corso sei anni dopo”.

E quindi torni in Italia e riprendi a lavorare o studi?

“Sì, mi rimbarco subito, perché dal 2012 lavoravo sulle navi. Durante l’imbarco, scopro che all’esame di Venezia avevo passato tutto tranne una cosa: l’inglese scritto. Ero stato bocciato per una sola crocetta sbagliata. Mi arrabbio, perché capivo che la parte tecnica – molto difficile – poteva essere un problema, ma non l’inglese, che avevo sempre usato sia per lavoro sia per i viaggi no! Arriva la primavera e mi iscrivo alla sessione di recupero a Genova. Mi fanno rifare sia l’orale che lo scritto, e questa volta prendo 10 in entrambi. Ottengo finalmente il titolo di primo ufficiale di coperta, l’ultimo grande scoglio nella mia carriera. A quel punto, penso: “Ora che tutto è sistemato, posso tornare a Istanbul e riprendere la moto”. Pianifico il rientro: Istanbul, Smirne, Kios, Atene, Igoumenitsa, Brindisi, Ortona. Quando arrivo a Istanbul, però, mi innamoro di nuovo della città e decido di continuare il viaggio”.

“Mi sposto in Cappadocia – racconta Stefano -, attratto dai camini delle fate, e ad Ankara incontro un cicloturista francese. Lui mi fa vedere foto dell’Iran e mi parla dell’antica Persia. Mi convince: “Ormai sei qui, devi andare!”. Inizio a informarmi e scopro che mi serve un documento di cui non avevo mai sentito parlare: il carnet de passage. In Cappadocia, un altro viaggiatore mi spiega di cosa si tratta, ma non è qualcosa che si può ottenere online. A quel punto, lascio la moto in un ostello e torno in Italia per risolvere la questione. Mi imbatto in una serie infinita di ostacoli burocratici: serviva una fideiussione, ma nessuno voleva farla. Inoltre, io non avevo più il CUD italiano perché lavoravo all’estero, e la busta paga non bastava. Dopo più di un mese, riesco finalmente a ottenere il carnet a Milano.
Nel frattempo, conosco quella che diventerà la mia ragazza. Riparto per Ankara, riprendo la moto e decido di esplorare il Caucaso prima di entrare in Iran. Attraverso la Georgia e l’Armenia. In Georgia, vicino a Ushguli, ho la mia prima – e unica – stallonatura della gomma. Non avevo leve, bombole CO2, né camere d’aria. Mi aiutano dei fuoristradisti israeliani, che riescono a sistemare tutto”.

“Finalmente arrivo in Iran – Stefano porta avanti il racconto -. Alla frontiera c’era un blocco per tutte le moto sopra i 250 cc, imposto dalle autorità iraniane come ritorsione contro le sanzioni americane. Io, con il mio 125 e tutti i documenti in regola, riesco a entrare. Le autorità controllano ogni dettaglio: il numero del motore, il numero dello chassis, il carnet, il visto. Alla fine, devo entrare: non c’erano scuse per fermarmi. In Iran divento una piccola celebrità. La mia storia finisce su alcuni giornali locali. Stampavo l’articolo in farsi e lo mostravo ai poliziotti quando mi fermavano: loro leggevano, capivano chi fossi e tutto filava liscio. Attraverso il deserto del Dasht-e Lut a 50°C. È stata una delle esperienze più difficili del viaggio, ma la moto ha tenuto duro. Dopo l’Iran, entro in Pakistan. Qui affronto il caldo del Belucistan con la scorta armata, a causa della pericolosità della zona. Arrivo a Islamabad e vengo accolto da un ex comandante della Marina Militare pakistana, che mi ospita. Da lì mi spingo fino alla base del K2 a Skardu e attraversando il Babusar Pass a 4198 metri. In Pakistan, mi ammalo gravemente di intossicazione alimentare. Sono stato una settimana a letto con febbre alta, debilitato. Ho pensato di aver preso una malattia seria, come il tifo, ma grazie a un farmacista locale e ai fermenti lattici riesco a guarire.
Continuo verso l’India, ma arrivo esausto: moto scarburata, stagione dei monsoni, ancora debilitato dall’intossicazione. Lascio la moto a New Delhi a un motociclista locale, promettendo di tornare presto a riprenderla”.

Incredibile. E tutto questo è solo l’inizio?

“Sì, esatto. Quello che doveva essere un semplice trasferimento della moto è diventato un viaggio che, sei anni dopo, è ancora in corso”.

Continuiamo a focalizzarci sul viaggio poi la prossima volta parleremo di altre storie…

“Torno in Italia, mi imbarco di nuovo per lavoro, passo un po’ di tempo con quella che allora era la mia ragazza e rimango qualche giorno a casa. Ormai ero diventato un maestro nel “Tetris”, riuscivo a incastrare tutto: lavoro, viaggi, relazioni. Dopo qualche mese, riparto per tornare a New Delhi. La stagione dei monsoni era finita, mi ero rimesso in forze e avevo messo da parte qualche soldo. La ragazza era tranquilla, mia madre pure, anche se cominciava a nutrire qualche dubbio: “Doveva riportare la moto dai Balcani e ora è arrivato in India!”. Riparto con la promessa di spedire la moto in Italia una volta arrivato a Mumbai. Questo era il piano. Ma, come spesso accade, mi rinnamoro dell’avventura. Nel frattempo, entro in contatto con Matteo Nanni, un altro motoviaggiatore. Lui mi consiglia di fare il periplo dell’India, un giro di 7000 km. Lì commetto quella che chiamo la “malsana idea”: mi lascio convincere e inizio questa impresa titanica”.

“Settemila chilometri nel traffico indiano – continua – sono come giocare alla roulette russa ogni giorno. Ci ho messo quasi tre mesi. Andavo piano, fermandomi spesso, perché il viaggio mi sfiancava. O mi fermavo perché il posto era bello, qualcuno mi ospitava o ero semplicemente esausto. Spesso è difficile far capire a chi viaggia con moto grandi cosa significhi fare 7000 km in India con un 125. La moto era leggera, sì, ma le distanze sembravano infinite. Quando guardo l’itinerario oggi, mi sembra di aver viaggiato fino sulla Luna. Traffico, rumore, caos: l’India è l’unico paese che non rifarei, non perché non mi sia piaciuto, ma perché è massacrante. Troppo traffico, troppa morte sfiorata. Ho visto la morte in faccia più volte, ma la protezione divina – o chiamiamola fortuna – mi ha sempre salvato. Un episodio in particolare mi ha segnato. Ero nelle Seven Sisters, la regione del nord-est vicino al confine con il Myanmar. Un tuktuk guidato da un ubriaco, di notte e contromano, mi è venuto addosso. All’ultimo ho visto la sagoma e ho buttato tutto a destra. Avevo le protezioni: una vecchia tuta anni ’90 di mio zio, che usavo ovunque, dal deserto a +50°C al Babusar Pass a -10°C. La protezione al ginocchio e gli stivali hanno fatto il loro lavoro, e non mi sono fatto nulla. Il tuktuk, però, ha subito danni, e la gente del posto ha risolto la questione “all’antica”: hanno riempito di mazzate l’autista ubriaco per aver messo in pericolo uno straniero. Io ero scioccato, ma loro mi dicevano: “Sté, sei a posto? Bene, giustizia è fatta!”. Dopo l’India, proseguo in Bangladesh. Matteo Nanni mi aveva detto: “Devi assolutamente andarci!”. L’accoglienza è stata incredibile. Mi hanno scambiato per un amico di Valentino Rossi (N.D.R: sarà stato per il 46 che campeggiava sulla moto?). Ogni città che attraversavo si riempiva di gente che mi dava mazzi di fiori. È stato surreale”.

“Da lì – Stefano va avanti con il racconto – sono riuscito ad attraversare il Myanmar, un’esperienza unica. Il paese era in guerra, e attraversarlo era come fare un salto indietro di 50 anni: ponti in legno, strade sterrate di terra rossa, pagode ovunque. La gente era di una gentilezza commovente. Arrivo a Kuala Lumpur poco prima di Natale 2019, esausto. I soldi stavano finendo, la mia ragazza mi martellava e il lavoro mi chiamava. Decido che è il momento di fermarmi. Dico: “Aspetta, voglio spedire la moto, ma prima mi voglio godere il sud-est asiatico quando sarò in forze”. Arrivato cotto, penso: “Sai che ti dico? Ci torno tra qualche mese”. Era la quarta volta che lasciavo la moto. Metto un post su Facebook chiedendo se qualche italiano avesse un garage per custodirla. Mi rispondono in diversi, ma vuoi la stanchezza, vuoi che Kuala Lumpur è una grande città, alla fine rimando tutto. Ero coccolato: i ristoranti italiani mi invitavano a mangiare pizza, gnocchi, e mi sentivo trattato come un re. L’ultimo giorno, prima del mio volo, vado a pranzo da una persona che poi diventerà un grande amico: Federico Asaro. È italo-malese, con genitori italiani, ma nato e cresciuto in Malesia. Parla italiano perfettamente, ha un bellissimo resort a Kuala Lumpur e altri sparsi per l’Asia. È un uomo d’affari e un motoviaggiatore appassionato. La storia è incredibile. Il suo manager vede il mio post su Facebook e pensa: “Ne parlo col capo, faccio bella figura”. Mi scrivono un messaggio su Instagram. All’inizio penso sia spam o una fregatura, ma li contatto e scopro che era tutto vero. Per onestà intellettuale, gli dico: “Guardate che avete sbagliato persona. Io non sono il tipo da pubblicità per resort: viaggio come uno scappato di casa!”. Questa sincerità li colpisce. Il manager mi richiama e dice: “Il mio titolare ha apprezzato molto e vuole conoscerti per sentire la tua storia”. Non dimenticherò mai quel giorno. Arrivo al resort tutto infangato, con la tuta distrutta dalla giungla, capelli lunghi e mezzi biondi per una scommessa persa in Bangladesh – sembravo Nino D’Angelo! La barba era lunga, ero sfinito”.

Oramai rapiti dal racconto abbiamo smesso di fare domande a Stefano. Lo guardiamo con condiscendenza, e anche fretta, chiedendogli di continuare…

“Il guardiano mi guarda storto e dice: “Hai sbagliato struttura, qui non puoi entrare”. E io: “Guarda che sono in lista”. Lui strabuzza gli occhi, incredulo. Alla fine, mi fanno entrare.
Fuori c’erano macchinoni di lusso, e io con il mio aspetto da viaggiatore scalcinato. La servitù mi accoglie con inchini e mi dice: “Dacci i bagagli”. Io rispondo: “Ragazzi, io ho solo quattro stracci!”. Non ero abituato a questa accoglienza. Entro e mi portano in una camera di lusso tutta in bambù, con cascate, piscine e un’atmosfera eco-friendly da 5 stelle. Sembrava una storia d’altri tempi, una favola ottocentesca. Io ero abituato a dormire sotto i ponti, nelle caserme con i militari o nelle moschee. Continuavo a chiedere: “Ma è tutto pagato? Siete sicuri?”. Ogni notte lì costava 500 euro. Doveva essere una sola notte, ma la mattina successiva il manager mi dice: “Il mio capo ha avuto un problema e rientra tra due giorni. Puoi restare, se ti va”. Chiedo: “Ma gratis?”. “Sì, sì”, mi risponde. E chi ero io per dire di no? Così mi sono ritrovato a godermi un soggiorno fantastico in uno dei resort più belli che avessi mai visto. Il soggiorno a Kuala Lumpur si prolunga di qualche giorno. Il giorno stesso del mio volo, conosco Federico Asaro. Mi invita a pranzo e mi dice: “Tutto quello che vuoi, a carico mio!”. Io, con una fame da lupi, gli rispondo: “Vai, maestro!”. Sembrava una scena di Bud Spencer e Terence Hill nel Far West. Durante il pranzo, Federico era molto curioso di scoprire tutta la parte burocratica legata al mio viaggio. Mi confida che il suo sogno è fare il percorso opposto al mio: Malesia-Trieste, perché ha origini triestine. Mi fa mille domande su carnet, frontiere, visti, e io gli racconto tutto. Ovviamente, nel frattempo, continuavo a mangiare! Arrivano le quattro, poi le cinque. Io avevo il volo alle otto di sera, e Federico mi chiede: “Ma tu, la moto dove la lasci?”. Mi blocco: “Ops! Qualche italiano mi aveva offerto un posto, ma alla fine non avevo concluso nulla”. Federico allora mi dice: “Se vuoi, puoi lasciarla qui da me. Guarda quanto spazio ho!”. Federico aveva un GS e una bellissima Vespa. Mi dice: “La lasci accanto alle mie, non mi dà fastidio. Ma quanto tempo pensi di lasciarla?”. Gli rispondo: “Il mio imbarco dura tre-quattro mesi, quindi in primavera torno a prenderla”. Era dicembre 2019. Lasciammo la moto nel suo garage, ci stringemmo la mano, scattammo una foto ricordo e ci salutammo con la promessa che sarei tornato a riprenderla in primavera”

“Torno in Italia per Natale – descrive ormai in un unicum -: famiglia, ragazza, tutto come al solito. Avrei dovuto ripartire per lavorare, ma a marzo iniziano a circolare notizie strane su un virus in Cina. Io pensavo di fare il sud-est asiatico risalendo verso la Cina, ma le complicazioni economiche e burocratiche rendevano tutto difficile. All’epoca, avevo anche pensato di fare una raccolta fondi, perché avevo un bel seguito online e molte persone si erano appassionate alla mia storia. Ma proprio quando stavo cercando di organizzarmi, esplode la pandemia. Il lavoro mi comunica che dobbiamo temporeggiare, e poco dopo il virus arriva anche in Italia. Il Covid blocca tutto, e così la moto rimane in Malesia. Alla fine, la moto è rimasta da Federico Asaro per quasi quattro anni, fino ad agosto 2023.
Nel frattempo, Federico, dopo il Covid, fa un viaggio d’affari in Italia e mi dice: “Posso venire a trovarti?”. Io non c’ero, perché ero ripartito per lavoro, ma lo ospitano i miei genitori nella nostra casa di Ortona. Federico e la sua compagna hanno soggiornato da noi, e questo ha rafforzato la nostra amicizia. L’anno scorso, Federico è riuscito a realizzare il suo sogno: ha completato il viaggio Malesia-Trieste con il suo GS. Durante il percorso, ha avuto un incidente e si è rotto una gamba. Nella sfortuna, è riuscito a tornare a casa, si è rimesso in forze, ed è ripartito per completare il viaggio. Federico, a un certo punto, mi chiede: Sté, potresti tenermi la moto per un po’? Per me sarebbe un onore. Alla fine, però, non si è concluso nulla, perché suo fratello aveva costruito una nuova casa con un garage, e ha deciso di lasciarla lì a Trieste. Comunque, la mia moto è rimasta in Malesia fino all’agosto del 2023″.

E ora, dov’è la moto?

“Sì, allora, parliamo dell’estate 2023. Dopo quasi quattro anni in cui la moto era rimasta da Federico in Malesia, penso: “Il Covid è passato, è ora di andarla a riprendere”. Sai, i paesi del sud-est asiatico sono stati tra gli ultimi a riaprirsi. In tutti questi anni non mi ero mai dimenticato della moto, ma avevo messo in pausa questa voglia, perché la pandemia era stata dura per tutti i viaggiatori. All’inizio sembrava una questione di pochi mesi: un mese si riapre, due mesi si riapre… Stavo sempre lì a controllare il sito della Farnesina, sperando che arrivasse il momento giusto per partire. Dopo un annetto o un anno e mezzo, mi sono detto: “Devo mettermi l’anima in pace, altrimenti questa situazione mi consuma”. Non mi sono mai dimenticato della moto, ma ho lasciato che l’idea riposasse, aspettando che i tempi fossero maturi. L’anno scorso, però, ho sentito che era arrivato il momento. I paesi avevano riaperto, io avevo finito il contratto – perché nel frattempo, durante il Covid, ero passato dalle navi agli yacht, un tipo di lavoro con turni diversi – e la stagione stava per finire. Ho pensato: “Ora posso andare a riprendere la moto”. Ma non volevo andarci in aereo. Volevo un modo per viaggiare che mi permettesse di entrare in contatto con le persone. La pandemia ci aveva tenuto lontani gli uni dagli altri, e io cercavo qualcosa che mi riportasse al senso di comunità. Riflettendo, mi è venuta un’idea: l’autostop. È il modo perfetto per affidarsi al prossimo e scoprire l’umanità delle persone. Così è nato il progetto Humanity, grazie anche all’aiuto di un amico, Gianluigi di Salerno. Lui è un altro moto viaggiatore, anche se fa viaggi più vicini, e mi ha dato l’ispirazione. È anche un grafico, e mi ha aiutato a creare loghi, locandine ed eventi durante i miei viaggi”.

“Parto da Ortona – continua il racconto… a piedi – e faccio tutto il percorso fino a Kuala Lumpur in autostop, o quasi. Circa il 90% del viaggio è stato fatto così, con qualche tratto in treno per via di un infortunio alla caviglia e un pezzo in aereo in Cina. In Cina ho avuto un problema di gastrite, forse dovuto al cibo speziato. All’inizio mi sono preoccupato che fosse qualcosa di più serio, come un’ernia, e ho deciso di arrivare fino in Laos per stare più tranquillo. Poi Federico, il mio amico in Malesia, mi ha organizzato una visita medica a Kuala Lumpur, e per fortuna era solo gastrite. Con una terapia sono tornato in forze.
Quindi, il 90% del viaggio è stato autostop: un’avventura nell’avventura”.

Grande! Questa la mettiamo da parte e me la racconti poi in uno speciale capitolo per i nostri lettori…

“E così, arrivo a Kuala Lumpur dopo due mesi di viaggio via terra. Ovviamente, ero sfinito, con la barba lunga per i lunghi giorni di viaggio. Ero completamente cotto, ma felicissimo di essere finalmente tornato dalla mia motina. Ti posso dire che è stata un’emozione immensa quando l’ho rivista. Nel frattempo, Federico non l’aveva portata dal suo meccanico, quindi la moto non era più nel resort ma a qualche chilometro di distanza. Quando l’ho rivista, è stato difficile spiegare l’emozione. Dopo quattro anni, rivedere il “pegiottino” che nel frattempo non era più solo una moto, ma una parte della mia vita, un’entità superiore, qualcosa che solo chi ha fatto questi viaggi con delle moto piccole può capire. Poi, sai, ho fatto un altro viaggio, non così lungo, ma importante con l’Africa Twin. Lì c’è un legame fortissimo, ma più perché l’Africa Twin è una moto molto particolare. Adesso ho un 701, ma quando viaggi con una moto così piccola, nasce un legame che difficilmente puoi avere con moto di cilindrata più grande. Quando arrivi a destinazione con una moto così piccola, non è come arrivare in bici, ma è comunque un’esperienza sfiancante sia dal punto di vista fisico che psicologico. È un legame che si crea difficile da replicare con moto più grandi.
Quando ho ripreso la moto, ho pensato: “Adesso faccio un tagliando, un po’ di manutenzione”. Dopo quattro anni di fermo, il problema è che il pacco con i ricambi che mia mamma mi aveva spedito dall’Italia non è mai arrivato a Kuala Lumpur. Era stato bloccato, disperso. Mi sono ritrovato dall’altra parte del mondo, stanchissimo fisicamente, con la voglia di ripartire ma senza pezzi di ricambio. La moto era quasi un prototipo, quindi trovare i pezzi era impossibile. A quel punto, mi sono detto: “Cavoli, ora come si fa?”

“Inizia una serie infinita – descrive Stefano – di chiamate ed e-mail, cercando di rintracciare il pacco, ma niente, non riuscivo a capire dove fosse. Preso dalla disperazione, dico: “Ok, mi devo ingegnare!”. Così, ho deciso di cannibalizzare tutte le moto Yamaha, Honda e Suzuki che si trovavano nel sud-est asiatico. Ho trovato un meccanico che, sebbene mi abbia rifilato un pezzo di ricambio per il disco frizione che mi ha detto essere originale e che si è rivelato cinese (l’ho distrutto dopo poco), però è stato molto bravo. È riuscito a trovare tutti i pezzi compatibili smontando mille moto. Alla fine, siamo riusciti a fare una bella manutenzione e, dopo qualche settimana, la moto era pronta. Ho fatto alcuni test intorno alla zona per vedere se tutto funzionava e la moto era a posto. La moto era perfetta, ma comunque sempre lenta, più lenta di come l’avevo lasciata. Nel frattempo, la Camera di Commercio italiana a Kuala Lumpur mi ha contattato, dicendo che volevano conoscermi. Mi hanno detto che rappresentavo un qualcosa di positivo dell’Italia nel mondo, e la voce è arrivata anche all’ambasciata italiana. Così, la mia sosta a Kuala Lumpur si è protratta molto più del previsto: invece di pochi giorni, sono rimasto tre settimane a casa di Federico. Una volta arrivato a Kuala Lumpur e ripresa la moto, vengo invitato anche dall’ambasciatore italiano. La sua accoglienza è stata grandiosa. Rimane colpito dalla mia storia e mi dice: “Stefano, mi devi raccontare tutto!”. Io scherzando rispondo: “Signor ambasciatore, ci vorranno ore!”. E lui: “Non ti preoccupare, abbiamo tempo”. Così, trascorriamo una mattinata intera a parlare. Gli racconto tutti i sei anni del mio viaggio, e alla fine mi dice: “Stefano, che fai domani?”. Gli rispondo che avevo in programma di partire, ma lui insiste: “No, sei invitato a una serata di gala del Made in Italy nel mondo”. Accetto, ma mi rendo conto di non essere per niente presentabile: barba lunga, capelli incolti. Trovo un barbiere, sistemo i capelli, trovo una camicia e cerco di rendermi più adeguato all’occasione”.

Siamo tornati ad una fase di trance del racconto. Lui va avanti e fa bene così…

“Alla serata c’erano grandi imprenditori malesi e italiani, soprattutto del settore energetico. L’ambasciatore mi fa una sorpresa: “Stefano, preparati perché tra qualche minuto devi fare un discorso”. Così, racconto brevemente il mio viaggio, soffermandomi sulla grande umanità che ho trovato tra i popoli, in particolare tra quelli di fede musulmana, che mi hanno accolto con gentilezza e fratellanza. Il giorno dopo riparto. Attraverso la Malesia lungo lo stretto di Malacca ed entro a Singapore, un traguardo speciale perché è un paese con procedure doganali molto complesse. Il nostro ambasciatore in Malesia mi dice: “Stefano, ovunque andrai, dimmi dove sei e ti metto in contatto con l’ambasciata italiana”. Così, anche a Singapore vengo accolto calorosamente. A questo punto, mi trovo a dover decidere come proseguire. Non avevo più terre davanti a me, ma non ero ancora pronto a tornare indietro. Scopro di un piccolo armatore che opera con una navetta da carico in legno a Port Klang, vicino Kuala Lumpur. Risalgo la Malesia e arrivo lì, dove incontro Tony. Il trasporto non è economico – 270 euro per 10 ore di navigazione – ma era l’unica opzione.
La moto viene imbarcata su un pallet insieme a casse di verdura. Ti mando le foto: i marinai erano appesi alle cime per non imbracare male la moto. Io non potevo viaggiare con loro, quindi prendo un traghetto e approdo a Sumatra, in Indonesia. Da lì inizia una delle parti più belle del viaggio: l’attraversamento dell’Indonesia da ovest a est, passando per Sumatra, Giava, Bali, Lombok, Sumbawa, fino all’isola di Flores. Quando arrivo a Labuan Bajo, un luogo dall’aspetto esotico e fuori dal mondo, sono sopraffatto dalla bellezza.

“Durante il viaggio – continua -, molti imprenditori italiani in Malesia e Indonesia mi hanno aiutato. Tra questi c’è Matteo, un importatore ufficiale di moto in Indonesia e commentatore della MotoGP per la televisione locale. Matteo mi invita a cena, mi mette a disposizione la sua rete di contatti e la sua officina. Mi dice: “Pensa a rilassarti, a mangiare gelato – che produce lui – e a goderti Giacarta”. Rimette la moto a nuovo con i pezzi che riesce a trovare in loco. Poi, mi fa un regalo: un video che simula una gara tra me, sul mio 125, e le moto locali a due tempi sul Monte Bromo. Lui commenta il video come Guido Meda durante una battaglia tra Rossi e Stoner. Il video diventa virale sui social in Indonesia, e la gente inizia a chiamarmi “il nuovo Valentino Rossi”. In un paese dove Valentino è venerato, mi ritrovo ovunque accolto come una celebrità. A Bali, vengo ospitato da Mario Iorio, un grande moto viaggiatore italiano che vive in Indonesia. Quando arrivo a Labuan Bajo, Mario mi offre di lasciare la moto nel suo Sunset Hotel. Gli dico: “Mario, questa volta niente promesse. L’ultima volta doveva rimanere tre mesi ed è stata via quattro anni!”. Dal dicembre 2023, il “pegiottino” riposa nel bellissimo Sunset Hotel a Labuan Bajo, accanto al mare”.

Grande, grande. Allora io la finirei qui per oggi, anche perché quello che ci hai raccontato è fantastico: è simpatico, bello e credo molto interessante per la gente. Però, sai, io apprezzo sempre il valore delle storie personali; quindi, mi piacerebbe ascoltare qualche altro episodio significativo del tuo viaggio…

“Assolutamente. Questo viaggio è stato possibile grazie all’aiuto di tante persone, sia dall’Italia che incontrate lungo il cammino. Gli italiani da casa mi hanno supportato in mille modi: chi mi ha mandato pezzi di ricambio, chi mi ha dato contatti, chi mi ha aiutato a organizzare le tappe. Ma soprattutto, in viaggio, sono stato accolto da tantissime persone che mi hanno ospitato, sistemato la moto, sfamato e persino guarito quando mi sono ammalato. Questo viaggio è andato avanti grazie alla generosità e all’umanità delle persone che ho incontrato, e, ovviamente, grazie a quella moto. La chiamo “un piccolo armadio” perché, in fondo, è così: un oggetto semplice, ma con un’anima. Io ero solo quello che accelerava e frenava, il resto l’hanno fatto la moto e gli altri”.

Con il “Pegiottino” finalmente ritrovato e la certezza che ogni viaggio è molto più di una semplice meta, si conclude la seconda parte dell’intervista con Stefano Cipollone. Ma la sua storia non finisce qui: nella prossima puntata, esploreremo un’avventura ancora più profonda e toccante, il progetto Humanity, un viaggio nell’essenza stessa del contatto umano. Preparatevi a scoprire come Stefano abbia trasformato un semplice gesto, come l’autostop, in un manifesto di fiducia e solidarietà universale, partendo dall’Italia e attraversando il Medio Oriente, il Pamir e la Cina con la sola forza di una mano alzata.

(2 – continua)

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