Le avventure e le disavventure di un povero viaggiatore nei villaggi dell’India
Dopo avervi raccontato la grazia e i colori delle donne nelle campagne, oggi vi porto con me sulla strada: quella vera, fatta di traffico impossibile, cammelli in carreggiata, cibo di strada e la mia prima giornata in sella alla moto tra Delhi e Jaipur.
Stamani mi sono alzato per primo. Dovevo parlare con la moto, prendere accordi. Abbiamo fatto un patto: io non la strapazzo, lei mi tiene fuori dai guai. Avrò bisogno di tutto l’aiuto del mondo per abituarmi subito alla guida a sinistra.

Per fortuna il nostro premuroso Lalli ci ha fornito un “pilota del porto”, un ragazzo della sua bottega. Ci porterà fuori da Delhi.
Siamo fortunati: è domenica, il traffico non è impossibile. Bene, penso tra me e me, me ne sto buono sulla sinistra e piano piano mi abituo alle manovre. Ma non ho nemmeno finito il pensiero, che mi si para davanti una rotatoria.

Che sarà mai, direte voi. Avete mai provato a percorrere contromano una rotatoria di prima mattina? Forse sì, ma in preda ai fumi dell’alcol. Farlo lucidamente è una violenza per chi ha quarant’anni di guida sulle spalle.
Copro la linea del nostro Caronte, che ci traghetta fino alla prossimità dell’autostrada. Qui ci saluta. Vedo il turbante blu allontanarsi in mezzo al traffico.

Non porta il casco, penserete. È ovvio: è un Sikh. Ha la mano di Dio sulla testa. Fino a quando indossa il suo copricapo, è lui che lo protegge.
Ora siamo soli.

Se pensate che sia facile percorrere un’autostrada indiana, non avete idea in quale girone dantesco ci stiamo cacciando. Ma andiamo con ordine.
Primo: le moto non pagano il pedaggio. Basta infilarsi in uno stretto pertugio dal fondo scassato, al lato delle corsie. Il percorso per superare il casello è talmente improvvisato che sembra se ne siano ricordati all’ultimo momento.

Le tre corsie dell’autostrada sono usate senza apparente regola. Non esiste quella per i veicoli lenti. Si sorpassa a destra o a sinistra, dove c’è spazio. Unica regola: suonare lungamente il clacson.
Un assioma che credevo incrollabile, quello per cui un’autostrada è sempre protetta e recintata, cade all’istante.

In India i passaggi a raso sono decine. Il traffico non entra dalle vie laterali: ci tracima.
Le persone attraversano la carreggiata. Puoi entrare e uscire saltando la banchina per andare al distributore lì accanto.
Sul ciglio puoi aspettare l’autobus: basta sbracciarsi. Si fermerà di scatto, incurante del traffico. E dietro di lui, suoni forsennati.

I camion, con una rotonda manovra, invertono la marcia come e quando vogliono, invadendo tutte le corsie per passare attraverso un varco nell’aiuola spartitraffico. Riuscendo, ovviamente, a bloccare tutto.
Qui vale la legge del più grosso: i piccoli devono dare la precedenza. Non hanno mai ragione.

Dopo cento chilometri deliranti ne usciamo scioccati ma vivi, senza più alcuna certezza sulle regole della guida sicura.
Finalmente, un po’ d’India vera. La strada è stretta, piena di buche, attraversa splendide campagne.

Viaggio a passo d’uomo, così lentamente da distinguere chiaramente le espressioni dei volti.
Ogni volta che incrocio lo sguardo di una donna, questa – con un gesto elegante – copre una parte del volto con il velo del sari. Un bellissimo gesto pudico: scoprirò poi che si chiama ghoonghat. È un segno di rispetto.

Lungo le prode, ad essiccare al sole, rotonde pizze di sterco. Una volta secche, vengono accatastate fino a formare un grosso cubo, ricoperto con altro sterco per mantenerle asciutte.
Chi vi lavora sembra ignorare cosa ha tra le mani. Lo fa con grazia, anche se a me sembra il lavoro più umile del mondo. (Le pizze di sterco qui sono combustibile: per cucinare, per scaldarsi).

Tra gli alberi, scimmie ci guardano curiose. Mi giro: ho perso i compagni. Inverto la marcia, li trovo bloccati in mezzo a un branco di cammelli che ha invaso la carreggiata.
Mi avvicino, accarezzo un pelo ispido. Il cammelliere mi mostra un cucciolo e gentilmente lo separa dalla madre perché io possa fare una foto. Lei si avvicina, lo reclama. Giustamente.

Il branco si allontana. Riprendiamo il cammino. Entro in un villaggio, in un mercato coloratissimo. Voglio mangiare, ovviamente cibo di strada.
In una bancarella che non ti rassicura, ma l’uomo ai fornelli ha una camicia apparentemente pulita. La vetrina espone dei samosa, grosse frittelle. Appena mi vede, smette di cucinare. Sorride.

Io indico con il dito le polpette gialle, farfuglio qualche parola. Con le mani grassocce prende i samosa, li sbriciola in una scodella, schiaccia il ripieno di patate e piselli, ricopre tutto con del chatni, una salsa agrodolce a base di frutta, verdura e spezie.
Ho già la bocca in fiamme, ma butto giù. Il sapore non è male, ma sulle guance mi scorrono due lunghe lacrime. È l’effetto della capsaicina. A breve mi anestetizzerà la bocca, e non sentirò più nulla.

Mando giù una banana per attenuare il colpo. Do la buccia a una mucca sacra che gradisce molto l’omaggio. Con la lingua rasposa, mi lecca la mano.
Bene. L’immersione nell’India prosegue. Bisogna solo imparare a sopravvivere a questa ribollente umanità.

Il sole è basso all’orizzonte. Tra poco sarò a Jaipur…
Al prossimo lunedì, se ciò vi aggrada. E come sempre… Se tutto è andato bene, allora nulla è andato bene. Stay Wild, Stay Shanti.
(14 – continua)