Un accampamento curdo – Racconto

Un volo di aquilone a cavallo tra praterie e montagne che non si deve dimenticare

Come promesso, oggi, apro la mia rubrica su SienaPost per continuare la conoscenza di Pier Felice Finocchi, viaggiatore e narratore, che ha saputo interessarmi con le sue parole e le sue emozioni. Oggi abita sulla Colline Metallifere e non è ancora stanco di conoscere il mondo. La prima storia che Pier Felice mi ha proposto riguarda il suo arrivo in un accampamento curdo (lugent)

Un accampamento curdo di Pier Felice Finocchi

Avevo già provato qualche anno prima ma non mi avevano fatto passare…

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Ero in moto da solo e a malincuore dovetti far marcia indietro, dopo una decina di km di sterrato. Ora ripassando per quella che era una delle più belle strade che io abbia mai percorso, non ho potuto fare a meno di ricercare quello sterrato che prometteva qualcosa per cui vale la pena mettersi in viaggio.

Sto parlando di quella strada della Turchia orientale che da Dogubayazit va verso Igdir, fiancheggia poi il confine armeno e, regalando viste uniche sul monte Ararat, arriva a Kars, per poi ancora proseguire fino al confine con la Georgia.

Anche questa volta dopo qualche chilometro di strada bianca mi appare la caserma ma in più, a chiudere la strada, ci pensava un carro armato messo di traverso. Ho creduto che non ci sarebbe stato niente da fare nemmeno questa volta…

Mi sbagliavo: dopo qualche chiacchera con l’ufficiale uscito accompagnato da due soldati, giungemmo ad un compromesso, avrei lasciato il passaporto a loro e per 24 ore avrei potuto transitare da lì in avanti.

Non ci credevo ancora. Questa via è interdetta praticamente a tutti per due motivi: il primo è che siamo a ridosso del confine con l’Armenia e la strada ci entra e ci esce, un po’ come accade per alcuni sterrati delle nostre Alpi tra Italia e Francia; il secondo perché, nell’altopiano al quale si giunge dopo alcuni chilometri, vi sono in questa stagione numerosi gruppi di nomadi Curdi. Per me sia una cosa che l’altra erano e sono motivi validi per provare ad andare avanti.

Non vorrei apparire come uno “spavaldo”… non lo sono e neppure uno di quelli che necessariamente devono andare dove non si può, ma da sempre le strade che si affacciano su di un confine per poi entrarne e riuscirne, inerpicarsi e sparire mi hanno affascinato, catturato… e non so spiegarne il motivo.

Così, dopo poco, eccoci in vista delle prime tende. Scendiamo, ero con la mia compagna… si avvicinano alcune persone e poco dopo colui che era il capo dell’accampamento molto gentilmente ci fa strada dirigendosi un po’ più in alto verso la sua tenda.

Era un uomo, nel senso raro del termine. Dopo poco apparve la moglie… sembrava fosse entrata una regina, non certo per quella che a volte superficialmente definiamo bellezza ma per come si muoveva, per come parlava, per come guardava, per i suoi silenzi.

Ci furono offerti formaggi e pane, miele e noci, yoghurt e tè. Poi fecero cantare ad ognuno dei figli una canzone per noi ed alla fine chiesero a me di cantarne una.

Mi sono sempre vergognato di cantare pur sapendo di poterlo fare discretamente, ma li in quel momento, in quella situazione, in quel “tempo” ho proprio sentito il desiderio di farlo e l’ho fatto.

In quei giorni avevo in testa una canzone che canticchiavo sempre, in genere mi succede spesso e passo quindi di canzone in canzone ogni tre quattro giorni, dando il tormento a chi mi sta vicino; si trattava di Pugni Chiusi dei Ribelli, un brano degli anni Sessanta e così in una tenda di nomadi Curdi, in Turchia, sul confine armeno iniziai a voce piena a cantarla.

I bambini non riuscivano a trattenere le risa e per non essere così “sfacciati” davanti all’ospite si rifugiavano dietro la madre che continuava a mantenersi seria ma con un certo gioviale sforzo…

Il marito era divertito da tutto l’intreccio che si era creato. Ci furono applausi, ribevemmo del te e iniziammo una lunga chiacchierata… ci capivamo grazie ad un ragazzo che conosceva l’inglese. Non so se a qualcuno sia mai capitato di ascoltare una frase come quella che mi disse il mio ospite: “ho sentito dire che in Europa si costruiscono ottimi cannocchiali, mi sarebbe utile averne uno per cercar di trovare le capre quando si perdono”.

Fu come avere le vertigini, ci fu in me un attimo di sbandamento, essere li con qualcuno che “aveva sentito dire”… che non aveva letto una pubblicità o aveva visto in televisione o su internet o altro, no, aveva sentito dire… si parlava di come altri popoli lontani, altre genti avessero attitudini costruttive diverse e in quel caso migliori… e in questo dire non c’era sopravalutazione o sottomissione, ammirazione o invidia, niente… c’era solo la conoscenza di qualcuno che sapeva fare bene una cosa che avrebbe agevolato la sua vita di tutti i giorni.

Il fatto mi colpì profondamente, non garantii nulla ma in cuor mio mi ripromisi di soddisfare quel desiderio se mai fossi tornato da quelle parti.

Passammo poi del tempo a raccontarci cose di vita quotidiana e a fare piccoli giochi ai bambini tipo le ombre cinesi o far credere con abili movimenti della mano che un dito si potesse staccare e tutti ne fummo partecipi e divertiti. Poi presi l’aquilone che portavo da circa un mese con me e fu festa.

E mi ritrovai accucciato per terra a fianco di quell’uomo del quale non ricordo il nome, il capo di quel villaggio di tende situato tra montagne bellissime e dure come solo i monti sanno essere… nel tentativo di montare l’aquilone, legando ben saldi i fili, ognuno con le proprie conoscenze ed esperienze, ognuno con le proprie intuizioni, ognuno con la propria lingua; due mondi lontani e diversi congiunti e indaffarati.

Quando l’aquilone volò fu come se noi volassimo con lui… ci guardammo con la serietà con cui a volte si guardano i bambini che è poi solo la voglia di scoprirsi l’uno nell’altro… e volammo. Intorno i bambini correvano e saltavano guardando in su, i cani pastore abbaiavano, altre persone ad alta voce manifestavano la loro sorpresa, capre e pecore spaventate dai cani correvano di qua e di là… e noi eravamo li, realmente li, vivendo in maniera piena totale quel momento… che bello, non lo si può dimenticare, non lo si deve dimenticare.

Quando cominciò a far buio a malincuore dovemmo andar via. Arrivati alla caserma uscì un altro ufficiale anche lui accompagnato da due soldati, ci ridiede i passaporti e mi chiese che cosa avessi fatto al villaggio… e nel mio povero e traballante turco risposi: Ben uçtu, ho volato.

Pier Felice Finocchi

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