Una valigia dispersa nella steppa

Le avventure e le disavventure di un povero viaggiatore

Un paio di puntate fa vi avevo raccontato come, all’arrivo in Mongolia, i miei bagagli si fossero dispersi in qualche scalo e avessero preso una loro via. Io, nel mezzo della steppa, sulla via del lago del dono, mi arrangiavo con cose di fortuna, in un ambiente che non si può esattamente definire confortevole.

Cercavo di farmi coraggio, di abituarmi all’improbabile abbigliamento e all’essenzialità delle cose comprate, nella speranza — sempre più flebile — di rivedere le mie cose, di riavere i miei indumenti tecnici. Due mutande, due calze, una felpa. Il mio bagaglio stava in una piccola borsa da tennis.

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Una curiosa marmotta

Guidare la moto con degli scarponi da montagna, adatti ai ramponi e non certo alla leva del cambio, e con una cerata da pescatore di tonni rimediata a Ulan Bator, indossando sotto, gli abiti usati per il viaggio in aereo, non era il massimo del comfort né della sicurezza.
Soprattutto quando dovevo guadare un torrente e l’acqua, che non era entrata da sopra, si infilava dal fondo dei pantaloni.

Quando ti capitano queste cose, perdi un po’ il senso della misura e sottovaluti il mondo in cui sei capitato. Sono un occidentale vissuto in un ambiente confortevole, e quando affronto questi viaggi ho bisogno delle mie tecnologiche protesi che mi proteggono da un mondo a me ostile.

Al secondo giorno, più mi allontanavo dalla città, più la speranza di rivedere il bagaglio si assottigliava. Comunque, anche la seconda notte nella steppa era passata. E come sempre, con il buio, la temperatura era scesa.

La gher dove avevo dormito mi aveva però protetto: lo spesso feltro di lana, sorretto dal leggero telaio e sovrastato dalla sorprendente volta a raggiera, aveva dimostrato tutta la sua efficienza affinata in secoli d’uso.

Al mattino, mentre guardavo la luce filtrare dal foro centrale, rannicchiato in una vecchia coperta ruvida, vedo Alberto aprire la porticina di legno — a misura di nano — e lì sostare.
Era fermo, immobile, come una statua di sale, sembrava trattenere il respiro.

Come un cane che punta la selvaggina lui rimirava una piccola marmotta che a sua volta ci stava scrutando curiosa, adagiata proprio sul gradino d’ingresso della nostra tenda.

Come faccio a preoccuparmi di cose così poco essenziali come gli abiti, mi sono chiesto, quando al mattino hai un risveglio così. Ho preso i calzini, ancora caldi da sopra la stufa, e mi sono infilato gli scarponi — ancora fradici — che hanno immediatamente ucciso ogni piacevole tepore.

Ho raccolto i bagagli: una lunga giornata di cammino mi attendeva. Duecento chilometri di piste sabbiose, coperte da un manto di verde che sembra dipinto, dove le tracce si incrociano e si annodano tra decine di segni lasciati dal perenne migrare di uomini e bestie.

Durante il percorso scendo tra piccoli laghi, specchiati dal sole, tra cavalli bradi che ci permettono di infiltrarci nel branco quasi ignorandoci. Sono centinaia di taki che ci accolgono quieti, annusano l’aria con le zampe piantate nel fango.

Con il cuore che batte dall’emozione devo comunque andare via, anche se mi piacerebbe rimanere con loro. Qui gli animali sembrano non avere paura dell’uomo: se sono intenti a mangiare, non si lasciano distrarre. Devi girargli attorno.

La strada ora sale. Vedo i primi alberi dopo tre giorni di prati, in una valle dove un fiume largo distende i suoi rami. L’alveo sembra non avere fine, coperto di sassi bruni e scivolosi, dove la moto fatica a trovare la strada. Il motore s’imballa, la ruota non trova appiglio, e devo faticare molto per guadagnare la riva.

Dall’altro lato, maestosi yak pascolano quieti. Mi avvicino pian piano, con un filo di gas.
Rimangono lì, immobili, con il crine lungo che sfiora il terreno. Neri, bruni, marroni, grandi, piccini. Le corna aguzze incutono timore e richiedono un po’ di prudenza.

Finalmente, sul fondo della valle, intravedo le fumarole delle sorgenti termali di Tsenkheriin Khaluun Us. Intorno, tre distinti campi di gher che le circondano in un silenzio quasi irreale.

Secondo alcune credenze locali, ogni sorgente ha uno spirito guardiano, e le acque vanno rispettate: non si urla, non si beve mentre si è immersi, e si lascia un’offerta — una pietra, un fiocco di stoffa.

Sicuramente vicino alle acque calde del Fiume Azzurro (così si traduce il nome) ci sarà un lus, invisibile ma sensibile al rispetto umano. Può guarire o colpire, a seconda di come viene trattato. È legato alla purezza dell’acqua e alla pace del luogo.

Dicono che si offenda facilmente, e che per placarlo occorrano fiocchi di seta, pietre, monete, un po’ di latte, o anche solo silenzio e preghiera.

Non so se fu il fascino secolare del luogo, o la lunga antenna piantata che raccoglieva il segnale dopo giorni di vuoto, ma dal telefono dimenticato in una tasca partì uno squillo.
Era la gentile signora del noleggio moto. Con voce squillante annunciò: “La valigia è arrivata!”

Dispersa tra Roma, Mosca, Ulan Bator, rimasta incastrata chissà su quale nastro, binario o carrello, ora riappare dal nulla. Mi sembra un miracolo. Sono felice. “Finalmente le mie cose!” urlo a tutta voce.

Poi rifletto: sì, però… poco utili. Ottocento chilometri di steppa ci separano. E mi deprimo di nuovo. Dall’altro capo del filo, la donna mi fa una proposta: “Potremmo spedirla con la corriera transiberiana…” (Il nome me lo sono inventato, non ricordo cosa disse. Ma una cosa l’intesi bene: domani, a mezzanotte, la valigia arriva in un piccolo paese a cinquanta chilometri da voi).

Dopo un attimo di riflessione dissi ad alta voce: “Bene. La valigia era persa. Decido di tentare la sorte”. Male che vada, avrà una fine dignitosa. Epica, direi: dispersa nella steppa gelata, sulla Millennium Road.

Il giorno dopo, raggiunto il paese, mi rendo conto che non c’è un posto dove pernottare.
Solo baracche e maiali. Ma la fermata è vicino a un vecchio distributore: un casotto di legno, una pompa di benzina a due ottani. Chiedo all’uomo di guardia. E sorprendentemente capisco che potrebbe ritirarmela lui. Non dovrò passare la notte sul ciglio della strada.

Non so se è fortuna, o se i viaggiatori hanno sempre un angelo custode. Anzi… no: oggi conosco il suo nome. Era Usyn Ezen, lo spirito dell’acqua, che benigno mi faceva un favore.

Io non avrei potuto guidare la moto di notte. Sarebbe stato davvero tentare la sorte.
La steppa, che di giorno è un soffice campo d’erba, di notte è un nero, insidioso tappeto pieno di trappole.

Arriva il mattino. Percorro la strada, volo per cinquanta chilometri. Un decrepito UAZ è parcheggiato vicino alla pompa, su un piccolo prato. L’autista, appena mi vede, apre lo sportello posteriore. La valigia compare. È lei… è proprio lei! Il lucchetto rosso. La targhetta gialla.

Senza aspettare un istante mi riapproprio delle comode cose, compagne di tanti viaggi.
Mi spoglio sull’erba. Ritrovo i miei pantaloni, il casco, i guanti comodi. Non credevo che cose usuali, normali, potessero mancarmi così tanto.

Felice, riparto. Tiro con stizza, in fondo al pulmino, la corona di spine: lo scomodo casco che aveva cinto la mia testa. Ora la steppa, se mai fosse possibile, pare ancora più bella.

Un saluto dal vostro ex… pescatore di tonni. La prossima settimana, un’altra storia. Spero che anche questa vi sia piaciuta. Se tutto è andato bene allora nulla è andato bene! Stay Wild Stay Shanti.

(3 – continua)

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