Terra difficile in cui vivere il Cile che portò all’annuncio di Salvador Allende
Vi parlo sempre di viaggi, di insoliti incontri. Oggi vi vorrei raccontare la storia di un manifesto, trovato in una cittadina del profondo Sur del Cile, come chiamano lì il sud.
E se Sud vi fa pensare al caldo, qui anche nei mesi estivi, nella stessa giornata, puoi trovare le quattro stagioni che si combinano insieme con fenomeni estremi: vento a oltre cento chilometri all’ora, pioggia così forte e fredda che i nostri inverni sembrano tiepide primavere, neve nell’attraversare i passi, per poi sciogliersi tutto in un tiepido sole.

Lungo la strada, gli alberi hanno appese ai rami lunghe barbe di licheni alimentati dall’umidità dell’aria; all’imbrunire, qualcosa di spettrale sembra agitare la foresta. Non fronde, ma qualcosa di più simile a ragnatele tessute da giganteschi ragni. Qui non c’è riparo dai venti: quando iniziano, ti devi piegare, come i lunghi fili d’erba che coprono la campagna.

Mentre guidavo la moto, stretto nella cerata, lucida di acqua, che non riusciva più a contenere il gelo nonostante tutti gli strati di tecnologici tessuti che avevo indossato, pensavo alla gente che accudiva il bestiame in queste lande.
Provavo a immaginarmi un pastore, durante il rigido inverno, mentre cercava di proteggere il suo gregge dalle intemperie. Ed era inevitabile domandarsi come fosse possibile sopravvivere qui cent’anni fa, senza alcun aiuto tecnologico, solo con la forza delle braccia e la resistenza dello spirito.
Arrivato a Punta Arenas, in una delle sue piazze principali, il manifesto mi ha catturato. “Ya no basta con rezar” (Non basta più pregare), c’era scritto.
Raffigurava un prete con una pietra in mano, il volto determinato, quasi rabbioso. Era uno dei tanti che commemoravano i cento anni “della Rebelión de los Tira Piedras”.

Nel 1919, in questa regione estrema, i pastori e gli operai si ribellarono contro le condizioni disumane in cui vivevano e lavoravano. Alcuni abitavano capanne fatte di pelli di animali; altri, più fortunati, trovavano impiego nelle fabbriche di conservazione del pesce, dove l’emancipazione era solo un miraggio.
La ribellione, con i suoi strumenti semplici – pietre contro fucili – fu una risposta disperata a un sistema ingiusto e implacabile.

La sera, quasi per caso, entrai in un locale e rimasi senza parole. Le pareti erano tappezzate di manifesti storici, tra cui lo stesso manifesto che avevo visto per strada, accanto a una pagina del giornale La Nación del 4 novembre 1970, con il titolo “Asumió el gobierno del pueblo”, il giorno in cui Salvador Allende prese il potere. In un angolo, una foto del Che Guevara sembrava vegliare sulla scena.
Mi bloccai per qualche istante, quasi incapace di cenare. Io, che avevo viaggiato per giorni lungo strade sterrate immerse nella natura, ora mi trovavo di fronte a immagini di lotta e sofferenza di chi quelle stesse terre le aveva percorse in condizioni ben diverse.
Quei volti, quelle storie, si sovrapponevano alle immagini della Patagonia che avevo attraversato. Percorrere quelle strade oggi deserte e selvagge faceva pensare a chi cento anni fa le solcava per lavorare, lottare, sopravvivere. Oggi i paesaggi sono gli stessi, ma le storie di chi li ha vissuti restano impresse nei muri, nei manifesti, nei ricordi.

Guardando meglio il manifesto del prete con la pietra in mano, notai una somiglianza con Padre Mariano Avellana, il missionario claretiano che aveva dedicato la sua vita agli emarginati del Cile. Non so se fosse davvero lui, ma l’immagine evocava lo spirito di una Chiesa che non si limitava a pregare, ma scendeva nelle strade, si sporcava le mani, si schierava dalla parte degli ultimi.
Il manifesto era potente nella sua semplicità. “Non basta più pregare” suonava come un grido di risveglio, un invito all’azione. E guardandolo, immerso nella quotidianità di Punta Arenas, con le sue case di legno e lamiera coperte di pioggia e vento, non potevo fare a meno di pensare a quanto poco fosse cambiato per certi versi.
Nel gennaio del 2022, quando tornai in Cile a Santiago, vidi persone accampate lungo i viali, in tende fragili che offrivano poca protezione. Il disagio sociale sembrava un fiume carsico, che riemerge in superficie quando le pressioni diventano insostenibili.

Forse, il messaggio di quel manifesto è ancora attuale. Non basta pregare. Non basta sperare. Bisogna agire, resistere, piegarsi al vento come fili d’erba, ma mai spezzarsi.
Ho ancora negli occhi la grafia semplice di quei manifesti riemersi dagli anni ’70, con i colori vivaci, le forme arrotondate e l’estetica quasi infantile e popolare di allora. I titoli in stampatello maiuscolo, pensati per rendere il messaggio immediato e leggibile, enfatizzavano l’idea di un futuro costruito attraverso il lavoro. Sono passati altri cinquanta anni, eppure le distanze non mi sembrano ancora colmate.
Mi torna in mente un viaggio in Bolivia, a La Higuera, dove Che Guevara fu catturato e ucciso. Gli tagliarono le mani, nascosero il corpo. Paura. Le idee fanno più paura dei cannoni.
Alla prossima settimana.