Carlo Turchi, impegno infaticabile – Ricordo

Due momenti di vita e dedizione raccontati da Fabrizio Vigni, onorevole ed ex segretario provinciale del Partito

Al ricordo di una persona che non c’è più, bisogna accostarsi con discrezione. Quasi in punta di piedi. Perché, per quanto si cerchino le parole giuste, nessuna esistenza può essere racchiusa nelle parole che cercano di raccontarla. Così, in punta di piedi, a 85 anni dalla sua nascita e a oltre vent’anni dalla scomparsa, affido il mio ricordo di Carlo Turchi a un paio di immagini che estraggo dalla memoria.

La prima risale a un giorno di primavera del 1990. Seduti sugli scalini della casa dove abitavo allora, alle Tolfe, quel pomeriggio ci capitò di parlare di ciò che aveva rappresentato per Siena la vicenda storica del PCI. Eravamo nel bel mezzo di quei mesi, straordinariamente intensi e travagliati, che segnarono il passaggio dal PCI al PDS. Si stava concludendo una storia contrassegnata da una felice anomalia – la diversità del comunismo italiano, il  ruolo che il PCI aveva avuto nella costruzione della democrazia, per l’emancipazione di milioni di lavoratori, nelle trasformazioni sociali del Paese – ed al tempo stesso da una insanabile contraddizione, quella di essere, da tempo, per molti versi simili ad altri partiti socialisti e democratici europei, portandosi però ancora addosso la zavorra di richiami ideologici derivanti dalla tradizione del movimento comunista.

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Carlo non amava più di tanto certe discussioni nominalistiche, prive di concretezza, che così spesso sembrano appassionare la sinistra, e che talvolta nascondono un vuoto di idee sulle cose da fare qui e ora. Aveva, sia chiaro, solide convinzioni ideali e una precisa visione del mondo; ma più che parlarne preferiva agire, darsi da fare per trovare le migliori soluzioni possibili ai problemi. Era un formidabile problem solver, come gli dicevo scherzosamente. Ce ne fossero stati, come lui. E quando ci si incontrava, di solito con poco tempo a disposizione, era proprio per discutere di questo o quel problema specifico. Quel pomeriggio, però, al calar del sole e davanti ad un bicchiere di vino, avemmo il tempo per uno scambio di idee che andava più a fondo. E ci trovammo alla fine d’accordo, senza troppa fatica, nel dire che per molti aspetti il PCI era, già da tempo, un partito che nulla aveva di diverso, se non nel nome e nella storia, da altri partiti della sinistra democratica europea.

Fabrizio Vigni

Mi sono spesso chiesto, negli anni successivi al 1989 e allo scioglimento del PCI, per quali ragioni in provincia di Siena si registrò la percentuale più alta in Toscana, e una delle più alte in Italia, di consenso alla “svolta” proposta da Occhetto. Le ragioni furono indubbiamente molte, ma tra queste vi era anche il fatto che la cultura di governo acquisita nel corso dei decenni – e intendo con cultura di governo non solo quella necessaria per amministrare gli enti locali ma anche, in senso lato, le funzioni di direzione svolte nelle organizzazioni economiche e sociali, nell’associazionismo e nella cooperazione – aveva nel corso dei decenni favorito l’evoluzione verso una cultura politica di natura riformista. E Carlo, non c’è dubbio, era espressione vera e compiuta di quella cultura politica, capace di unire ad una visione del mondo ispirata a ideali di libertà e giustizia il necessario pragmatismo che si alimenta di realismo e concretezza.  

Il secondo ricordo che mi viene in mente non è riconducibile a una data, ma ad un luogo. Piazza Salimbeni, davanti al Monte dei Paschi. Lì spesso, all’ora di pranzo o verso la fine del pomeriggio, capitava di darsi appuntamento per fare il punto su questo o quel problema. Era proprio in quelle occasioni, camminando insieme a lui lungo il Corso, che uno poteva misurare quanto fosse conosciuto e stimato in città, e quante e quali fossero le molteplici attività e le relazioni di Carlo. Non riuscivi a fare mezzo metro senza che qualcuno lo fermasse, anche solo per salutarlo. La banca. Il partito. La contrada. La cooperazione. Le case del popolo. E poi, naturalmente, il suo lavoro.

Erano così numerosi e multiformi, i suoi impegni, che a volte, per scherzo, gli chiedevo: scusa, Carlo, ma quanti sosia hai? Oppure hai dei gemelli, uguali a te come una goccia d’acqua? Perché non è possibile che sia una persona sola a fare tutte le cose che fai, di sicuro ce ne devono essere almeno due o tre, di Carlo Turchi. Invece ce n’era uno solo, e irripetibile. Per me – e per quel giovane gruppo dirigente che si ritrovò tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ‘90 a guidare il PCI e poi il PDS nella provincia “più rossa” d’Italia – fu un punto di riferimento prezioso, davvero prezioso.

Tanti, oggi, amano presentarsi come grandi esperti di questioni finanziarie; molti sembrano provare un piacere particolare nell’usare incomprensibili tecnicismi e inutili anglicismi per dire cose che si potrebbero benissimo dire in modo semplice e, per di più, in italiano. A Carlo non piaceva farne sfoggio, né aveva il vezzo di usare espressioni inutilmente complicate. Possedeva competenze vere, solide, apprezzate, che in maniera semplice sapeva mettere al servizio degli altri. Era, il suo, un impegno generoso ed infaticabile, senza risparmio di energie. Tornano in mente parole di Hannah Arendt che sembrano scritte su misura per persone come lui: “Il potere non è la potenza, non è la forma dominativa, è l’esercizio di quella energia che nasce dalla cooperazione”. Perché proprio quel concetto – l’energia che nasce dalla cooperazione – ci dice molto del modo in cui egli ha inteso la politica e vissuto la propria vita: dando il meglio di sé, in un impegno condiviso con gli altri. 

Sosteneva le sue opinioni con fermezza, ma in modo pacato, senza alzare la voce, con ironia e gentilezza. Proprio ricordando quel suo sorriso leggero, viene da pensare alle qualità che Italo Calvino, nelle “Lezioni americane”, indicava come essenziali in prospettiva del nuovo millennio: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza. Salvo forse la visibilità – perché non la ricercava affatto, non gli piaceva stare sotto i riflettori, preferendo il basso profilo – Carlo le possedeva, quelle qualità. Altroché, se le possedeva. Aveva le radici in una storia antica, ma al tempo stesso qualità essenziali per vivere il tempo nuovo e guardare al futuro. In tanti lo abbiamo stimato e gli abbiamo voluto bene. Anche per questo ce lo teniamo così stretto, il suo ricordo.

Fabrizio Vigni

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